Le questioni etiche relative al fine vita si possono ridurre essenzialmente a due: l’abbandono terapeutico, che porta al fine vita eutanasico (dunque anche al “suicidio assistito” di cui si sta parlando in questi giorni a seguito della decisione della Consulta) e l’accanimento terapeutico che persegue la vita a ogni costo.
«Ambedue da evitare perché moralmente illeciti», dice don Paolo Sanna, docente di Teologia Morale presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna. Secondo la Corte Costituzionale, come nel caso del Dj Fabo, chi ha agevolato il fine vita non è punibile per il reato di “aiuto al suicidio”.
Quale la posizione della Chiesa?
«Mi pare necessario distinguere la rilevanza etica tra: dare la morte (o aiutare a procurarsela), anche se richiesta per non soffrire e accettare di non poter impedire il sopraggiungere della morte, come evento naturale della vita umana. Su tutte e due vale il principio del non accanimento terapeutico (non accanirsi inutilmente contro la morte), e del dovere di fare tutto il possibile per evitare dolore e sofferenza inutile al malato. Non accanirsi è cosa assai diversa dal procurare la morte».
Se c’è un diritto al suicidio medicalmente assistito a chi il dovere di garantirlo, se richiesto? Al medico?
«Senza scomodare il “giuramento di Ippocrate” ogni medico sa bene che anche nelle battaglie che perde, c’è qualcosa che “vince” il limite: l’accoglienza, la condivisione, l’amore. Non è diventando “padroni dell’ultima ora” che si attutisce il dramma del malato. Diventarne “padroni ” consente solo un’estraneità e una solitudine disumane».
La Chiesa, nel suo magistero, più volte è molto chiara su questi temi, a cominciare dalla “Nuova Carta degli Operatori sanitari” del 2017.
«Dove si riconosce al paziente il diritto alla libertà di cura e il potere decisionale sulle terapie a cui sottoporsi e a cui rinunciare: “La rinuncia a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita” – vi si legge – “può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, escluso ogni atto di natura eutanasica” (n.150)».
Posizioni peraltro condivise anche da un organismo “laico” come il Comitato Nazionale per la Bioetica.
«Nelle Dichiarazioni anticipate di trattamento si ribadisce che queste non possono contenere indicazioni in contraddizione col diritto positivo, con le norme di buona pratica clinica, con la deontologia medica o che pretendano di imporre attivamente al medico pratiche per lui in scienza e coscienza inaccettabili».
Anche la Nuova Carta degli Operatori Sanitari definisce i confine del rapporto tra legge civile e obiezione di coscienza.
«Con chiarezza viene affermato che nessun operatore sanitario può farsi tutore esecutivo di un diritto inesistente, anche quando l’eutanasia fosse richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato. Uno Stato che legittimasse tale richiesta si troverebbe a legalizzare un caso di suicidio-omicidio, sono le parole di Giovanni Paolo II».
Carta che dichiara la liceità morale della sedazione palliativa profonda in fase terminale.
«A condizione che ci sia il consenso del malato, informati opportunamente i familiari, che sia esclusa ogni intenzionalità eutanasica e che il malato abbia potuto soddisfare i suoi doveri morali, familiari e religiosi. Ricorda però che “non si deve privare il moribondo della coscienza di sè senza grave motivo”».