Domenica XV Tempo Ordinario (16 luglio 2023) – Anno A
Is 55,10-11; Rom 8,18-23; Mt 13,1-23
Quando sentiamo questa parabola del seminatore, c’è sempre il pericolo che la parola di Dio rimanga sterile nel nostro cuore, perché la conosciamo a memoria. Però, la liturgia ci lascia indizi per risvegliare la nostra attenzione e rinnovare la nostra comprensione di questo brano troppo conosciuto. La prima cosa che sorprende, è il fatto che ci sono due testi di Isaia che sono citati.
Nella prima lettura, il profeta Isaia usa l’immagine della pioggia e della neve che scendono dal cielo per irrigare, fecondare e far germogliare la terra. Così la parola di Dio viene per far fruttificare il lavoro dell’uomo. Ma nel mezzo del brano del vangelo che abbiamo appena ascoltato, proprio tra la parabola e la sua interpretazione da parte di Gesù, c’è un altro passo di Isaia (Is 6,9-10) nel quale il Signore ordina al profeta di far sì che gli occhi del popolo non vedano, di indurire il suo cuore, di renderlo sordo, cieco e sterile. Tra la benedizione della parola di Dio che rende fecondi e la maledizione del profeta che rende ciechi e sterili, cosa è successo?
Se il problema non viene dalla qualità del seme, allora forse potrebbe venire dalle condizioni meteorologiche. Eccesso o assenza di sole e di pioggia, eventi difficili, stragi del clima? Spesso sentiamo che ci vogliono condizioni particolari perché il seme possa crescere e dare frutto. Però, nella sua lettera ai Romani, l’apostolo Paolo sembra sviluppare una visione un po’ diversa. Le sofferenze del tempo presente, le tempeste e le difficoltà della vita, non sono paragonabili a ciò che ci è promesso, cioè la gloria di Dio. Esiste nella creazione, in ciascuno di noi, una forza di speranza e di vita più potente di tutte le prove e di tutti gli ostacoli. Come noi, la creazione desidera ardentemente la libertà e la vera vita. Siamo fatti per accogliere la parola di Dio, per vivere in eterno! Allora, se il seme viene seminato, se le condizioni sono favorevoli, da dove viene il problema?
Lo spiega Gesù stesso nella sua interpretazione della parabola. Dio semina la sua parola, e la parola può germogliare dappertutto, anche sul terreno più disseccato e più ostile. Ma il problema viene dalla profondità di questa terra. La sterilità non viene né dalla qualità del grano, né dalle condizioni esterne, ma dalla nostra capacità di accogliere la parola nel profondo del cuore. Se il terreno non viene pulito, lavorato, purificato, alleggerito e approfondito, non può portare frutto a lunga scadenza perché non ha profondità. Certo, la parola può provocare entusiasmo e gioia superficiale, ma di fronte alle tribolazioni e persecuzioni, di fronte alle tentazioni e alle seduzioni del mondo, la parola corre il rischio di essere soffocata o divorata.
Si capisce, allora, che il vero nostro problema è di scavare più in profondità, di lavorare la terra del nostro cuore, di lasciare le cose superficiali, i desideri di essere ammirati, onorati, di sentirsi importanti, di dominare, per entrare nel mistero della nostra vera natura. Spendiamo tanto tempo e tanta energia per esistere agli occhi degli altri, e dimentichiamo di diventare chi siamo! Perdiamo tanto tempo a truccare la nostra anima, i nostri pensieri, e dimentichiamo di coltivare questa parte più preziosa e più splendida di noi stessi! Ci accontentiamo di sopravvivere e dimentichiamo di vivere, di coltivare la parte più preziosa del nostro cuore!
Dom Guillaume
monaco trappista – superiore monastero Sept Fons