Domenica V Tempo Ordinario – anno A (9 febbraio 2020)
Letture: Is 58, 7-10; 1 Cor 2, 1-5; Mt 5, 13-16
OMELIA
La prima lettura dal libro di Isaia mette in crisi il nostro modo di capire spesso la religione come perfezione dei riti e magnificenza del culto. Invece di insistere sul culto dovuto a Dio, il profeta sottolinea piuttosto l’importanza della carità verso i più poveri, i più bisognosi.
Nella seconda lettura dall’epistola ai Corinzi, Paolo mette in crisi anche il nostro modo di concepire la religione come chiarezza delle definizioni e razionalità dei dogmi, eccellenza della parola e sapienza, per mettere invece in rilievo e la debolezza, la poca credibilità dei messaggeri. E il brano del vangelo di Matteo, che abbiamo appena ascoltato, mette in crisi un altro modo di capire la religione come dominio sociale e potenza. Quando Gesù parla della fede come sale nel cibo o luce nel mondo, usa queste due immagini per descrivere un processo molto diverso.
Difatti, sappiamo molto bene che l’eccesso di sale rende il cibo immangiabile, come l’eccesso di luce rende cieco l’occhio che desidera vedere.
Il problema di Gesù non è dunque una questione di quantità, ma bene di qualità: «Se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato»? chiede difatti il Signore ai suoi discepoli. Quando manca il sale, il cibo non ha nessun gusto, e si perde l’appetito. Ma basta una piccolissima quantità di sale per rendere eccezionale ciò che prima sembrava molto banale. Il sale non prende il posto del cibo, non lo trasforma neanche, ma lo rende migliore. Questa immagine usata dal Signore per esprimere il ruolo della fede nell’esistenza è molto bella. La fede rende bello, desiderabile, ciò che non lo era prima. La fede fa rinascere il desiderio.
L’immagine della luce aggiunge altre sfumature a quella del sale. Se il sale è ancora una realtà molto materiale, sebbene molto sottile, la luce invece non si può toccare. Senza la luce, tutto è oscuro e freddo, la realtà perde rilievo e profondità. Tutto è assorbito nelle tenebre del non essere. Ma quando viene la luce, subito le cose appaiono e si distinguono. Le forme, i colori, le prospettive si lasciano indovinare. La realtà prende delle dimensioni che non si potevano indovinare prima. La luce permette di discernere, di uscire dal proprio mondo per andare verso l’altro.
Come la luce, la fede apre i nostri occhi alla realtà in un altro modo. Ci aiuta a vedere ciò che non si vedeva prima e a discernere il colore delle cose. E fa nascere in noi il desiderio di conoscere e di amare.
Sale e luce sono dunque le due immagini che esprimono la profondità della vocazione di ognuno di noi, che vogliamo essere cristiani. E si capisce perché, ancora oggi, la fede è essenziale, non solo per noi, ma anche per i nostri contemporanei. La fede permette di recuperare il gusto della vita e di intravedere la bellezza del mondo. Perché la malattia del nostro tempo è proprio questa incapacità di rendere grazie per tutto ciò che il Signore ci dà. Chi ha perso il gusto, sprofonda nell’amarezza e nelle critiche. Chi ha perso la luce negli occhi, vede solo ciò che non va e si lamenta, perché non sa più contemplare le meraviglie di Dio.
Cristo è venuto per renderci la gioia di vivere e lo splendore della verità. Ma cosa ne facciamo?
LECTIO DIVINA
Basta poco sale per dare sapore a un piatto! Basta solo una piccola lampada per riscaldare le tenebre di una grande stanza! Difatti, basta poco per rendere il gusto alla vita, per illuminare il senso dell’esistenza. Ma cosa significa essere sale? Cosa significa diventare luce in questo mondo? La spiegazione non si trova in questo brano del vangelo di Matteo, ma forse dobbiamo cercarla nel contesto vicino di questo passo nel nuovo testamento, perché queste parole del Signore vengono proprio dopo le famose beatitudini. Essere sale della terra e luce del mondo potrebbe dunque significare vivere le beatitudini. Secondo il testo del vangelo, sono i poveri in spirito, i miti, gli afflitti, gli affamati e gli assetati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati e quelli che sono diffamati che diventano il sale della terra e la luce del mondo.
A questo punto, si potrebbe pensare che basta questa interpretazione e che non c’é bisogno di prolungarla. Però, la liturgia di questa domenica suggerisce di non fermarci a questa apparente evidenza. Difatti, il brano della lettera di Paolo ai Corinzi ci invita a meditare un po’ più avanti sul significato delle beatitudini che sono difatti questa “follia della croce”! È certo un ideale molto bello e molto alto, ma forse troppo alto per noi. A questo punto, ci sarebbe il grande pericolo di avere una visione così alta della nostra fede che diventerebbe un ideale riservato per alcuni eroi della fede, e dunque impossibile per l’immensa maggioranza dei cristiani. Perché sappiamo tutti molto bene, se siamo onesti, che non siamo degli eroi.
La nostra debolezza, la nostra incapacità, la nostra tiepidezza, i nostri tradimenti, li conosciamo molto bene. E più andiamo avanti nell’esistenza, più diventiamo consapevoli delle nostre mancanze. Ed è proprio da questo che parte l’Apostolo Paolo, nel brano della sua epistola ai Corinzi, per aiutarci a capire meglio cosa significa il vangelo di oggi. L’Apostolo non parte dai propri meriti, dalle sofferenze sopportate, dalle sue conoscenze o dalle sue capacità, ma si appoggia proprio su ciò che per noi fa problema: “mi presentai a voi”, dice, “nella debolezza e con molto timore e trepidazione”. Per Paolo, ciò che fa di solito la reputazione di un predicatore, “i discorsi persuasivi di sapienza”, egli lo respinge e lo considera come nulla.
Ciò che dà sapore e luce, non sono i doni superiori e le qualità umane, ma la presenza della forza di Dio nella fragilità dell’uomo. È proprio il contrasto tra la povertà del vaso e la qualità del profumo che fa la bellezza del vangelo. Non basta ciò che attrae lo sguardo, la parola che cattura l’attenzione, il discorso che convince l’intelligenza. Ma come basta un po’ di sale per trasformare un piatto, come basta un po’ di luce per illuminare una stanza oscura, così basta questa umile presenza di Dio in noi per trasformare il mondo. Perché è solo Dio che può trasformare la nostra personalità ordinaria, le nostre parole molto comuni, la nostra presenza senza rilievo in luce e sale per il mondo. Però ci vuole anche la nostra cooperazione, il nostro povero consenso, il nostro piccolo “si”, perché il mondo lo possa gustare!
Dom Guillaume trappista, cappellano Monastero Cistercense Valserena (Pisa)
(www.valserena.it)