Per noi, cristiani, il corpo ha un valore infinito perché porta la traccia del Cristo risorto.
III domenica di Pasqua – Anno B (15 aprile 2018) – Letture: At 3, 13-15. 17-19; 1 Gv 2, 1-5a; Lc 24, 35-48
La descrizione molto concreta di Gesù risorto e l’insistenza di Luca sulle ferite delle mani e dei piedi, il corpo del Signore che si può toccare e il fatto che Egli non solo si fa vedere e parla ai suoi discepoli, ma anche mangia “una porzione di pesce arrostito”, come sottolinea l’evangelista, tutto questo crea un certo malessere tra noi, cristiani del ventunesimo secolo. Se la risurrezione fa già problema per tanti, cosa pensare allora di una risurrezione del corpo così concreta? Siamo tanto abituati a pensare al cielo come a qualcosa di molto intellettuale, senza consistenza, senza forma, senza luogo, che tutto questo ci pone problema.
Ma qual è il problema?
La carne di Cristo, cioè non solo la risurrezione, ma anche l’incarnazione, ha sempre fatto problema, durante la storia della Chiesa. Per alcuni, la soluzione era proporre che Gesù sia stato solo un uomo eccezionale, adottato da Dio dopo la morte, per altri, era veramente Dio, ma fingeva di mangiare, di soffrire, di morire! Tra questi due estremi, tante ipotesi sono state formulate, ma tutto questo era solo la conseguenza di un solo e unico problema: cosa fare con il corpo di Gesù? Quale rapporto tra Dio e la carne? Perché Dio aveva bisogno di un corpo per salvarci?
Infatti, queste domande ci rivelano il nostro modo di pensare la relazione tra il mondo materiale, di cui fa parte il corpo, e Dio. Per noi, è difficile accettare che questo mondo, che il corpo di Gesù, che il nostro corpo, possa essere importante per Dio. Per Dio, non siamo solo un’anima che deve essere salvata e che sarebbe caduta per un tempo in un corpo di peccato! No, per Dio, noi siamo tutt’uno. E Lui vuole salvare tutto ciò che siamo. Non vuole lasciar perdere una parte del nostro essere.
La nostra difficoltà di concepire e di accogliere la risurrezione di Cristo “nel suo vero corpo”, come dice una formula molto antica del credo degli apostoli, ci insegna soprattutto a guardare in faccia la nostra difficoltà di integrare la nostra fede nel concreto della nostra vita. La fede non si vive solo con la testa, ma deve incarnarsi nella nostra esistenza quotidiana. Il Signore lo dice in un altro modo quando afferma che “non basta dire ‘Signore, Signore’ per entrare nel Regno dei cieli”. Questa concretezza della fede ci fa paura, perché ci obbliga a pensare in un modo molto diverso, molto più scomodo!
Allora, qual è la vocazione del nostro corpo? Non è di sparire, ma di manifestare. Non è di nascondere, ma di illuminare. Come mai? E forse solo nell’eucaristia, nello spezzare il pane, che si può intuire meglio il senso del nostro corpo. Come il sacramento manifesta una presenza molto aldilà di ciò che si può vedere e toccare, così anche noi siamo chiamati a diventare testimoni nel suo corpo, che è la Chiesa. E questo si fa lavorando, condividendo, annunciando, vivendo semplicemente la nostra fede. Senza corpo, non si potrebbe né vedere, né ascoltare, né toccare, né imparare né sperimentare niente! Ma non si potrebbe neanche condividere, consolare, aiutare, annunciare, amare. A questo tempio di Dio, Gesù ha dato tutta la sua dignità e la sua bellezza, con la risurrezione.
Per noi, cristiani, il corpo ha un valore infinito perché porta la traccia del Cristo risorto.
Dom Guillaume trappista, cappellano Monastero Cistercense Valserena
(www.valserena.it)