«Un campo con un recinto metallico, insormontabile. Nel primo tendone c’era un centinaio di persone in fila indiana, sotto la bufera di neve. Qualcuno aveva una coperta addosso, qualcuno non aveva nemmeno le scarpe. Avanzavano lentamente. In fila, per chissà quanto tempo, per entrare in una tenda, dove davano loro una fetta di pane e una scatoletta. Mi sono sentito male. Lo ammetto: nonostante tutto quello che ho visto a Lampedusa mi sono sentito male. Un tremendo pugno nello stomaco. Mi sono appartato, ho pianto. Non mi vergogno a dirlo. È disumano. Mi sono fatto forza. Ho visitato le tende, poco riscaldate, alcune con i buchi nel tetto, alcune rotte dove entrava neve. Tende adatte a 5 o 6 persone, dove i migranti erano ammucchiati dentro, stipati in modo inverosimile. Gente che viene da atrocità. Che ha diritto a fare almeno una domanda di asilo. Neanche questo viene più rispettato. Ragazzi con ferite, che hanno provato più e più volte a passare quel confine. Chi per raggiungere un parente, chi la fidanzata, chi vuole venire in Europa per studiare. Uno mi ha detto che ha provato 70 volte. Viene dal Pakistan. È stato picchiato, svestito e ributtato in Bosnia, più volte. Vengono trattati come nemici, ma sono persone, non nemici dell’Europa. Un’Europa che rafforza i confini, che deve respingere… chi? Questa povera gente».