Pentecoste: «Amare, osservare, mandare, rimanere…»

Solennità di Pentecoste 2019 – anno C (9 giugno)
Letture: At 2, 1-11; Rom 8, 8-17; Gv 14, 15-26

In questo giorno in cui celebriamo la Pentecoste, cioè la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli, abbiamo sentito un brano del vangelo di Giovanni in cui tornano molto spesso quattro parole: amare, osservare, mandare e rimanere.
«Se mi amate», dice Gesù, «osserverete i miei comandamenti», e poi aggiunge che il Padre «darà un altro Paràclito perché rimanga con noi per sempre».

È proprio questo il contesto della venuta dello Spirito Santo, mandato dal Padre per rimanere con noi, quando Gesù fu asceso al cielo. Sembra dunque che ci sia qualcosa che dipende da noi: amare e osservare, e qualcosa che venga da parte di Dio: mandare e rimanere.
Dicevo “sembra” perché, difatti, come gli Apostoli dopo la risurrezione del Signore, facciamo tutti l’esperienza sconvolgente che non solo non siamo capaci di osservare i comandamenti del Signore, ma neanche sappiamo cosa significa amare!

E questo è uno dei frutti di un’incontro vero e profondo con il Signore. Più siamo vicini alla sua luce, più scopriamo le nostre tenebre! Più
facciamo l’esperienza della sua bontà e della sua misericordia, più vediamo la nostra debolezza e la nostra miseria.
In un certo senso, più desideriamo amarLo e servirLo, più vogliamo essere fedeli e pronti a fare la Sua volontà, meno troviamo in noi dei motivi per essere sicuri di poterla fare. Più andiamo avanti e peggio è!

Così scopriamo pian piano che abbiamo sempre più bisogno della sua forza, della sua grazia, del suo Santo Spirito per cominciare a imparare, cominciare a amare come Lui. Così scopriamo che senza il nostro difensore, cioè il Paraclito, il nostro desiderio non porta frutti che rimangono. Così scopriamo che l’essere cristiano è proprio lasciare Dio entrare e dimorare dentro di noi, e anche tra noi.
Questo ci permette di capire ciò che ci insegna la teologia: lo Spirito è l’amore che unisce il Padre al Figlio, che procede dal Padre e dal Figlio. Amare non significa dunque lasciarsi prendere dai sentimenti o dall’emozione, ma piuttosto lasciare tutto il posto, nel nostro cuore, alla presenza dello Spirito che vuole amare attraverso ognuno di noi, che desidera trasformare il mondo con il Suo amore.

Amore e fedeltà non sono dunque una condizione, ma molto di più un frutto della presenza dello Spirito di Dio in noi e tra noi.
Per questo, dobbiamo accogliere come una grazia, una grande grazia, la consapevolezza sempre più grande ma anche sempre più dolorosa, della nostra indegnità, della nostra povertà, della nostra miseria. Perché questa consapevolezza è il segno che lo Spirito sta lavorando in noi, che sta mettendo in luce tutto ciò che non va. Così lo Spirito, con un gemito ineffabile, prega in noi, perché l’amore possa fare delle meraviglie in noi, e tra noi!

Dom Guillaume trappista, cappellano Monastero Cistercense Valserena
(www.valserena.it)

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