Sono appena 1.500 i cristiani cattolici della Chiesa di Mongolia.
Per Francesco, nonostante la vistosa infermità, sono la pecorella del gregge che val la pena, “lasciate le altre al sicuro”, sobbarcarsi una faticosa trasferta per poterla abbracciare e caricare sulle spalle.
Quanta differenza fra il milione e passa di giovani a Lisbona per l’ultima, esaltante GMG e questo “povero resto” della Chiesa universale.
Se ragionassimo per numeri (e quale vertigine ci dà sempre questa tentazione), il Papa si è mosso per incontrare il condominio di una grande città o, se vogliamo stare a casa nostra, un piccolo paesino della Sardegna.
Il suo aereo si è come incuneato – nella sua rotta di quasi dieci ore di volo – fra Russia e Cina, fra Mosca e Pechino, unici due paesi dove il Santo Padre è presenza “non gradita”. Soprattutto per i suoi continui, ininterrotti e sempre vibranti appelli in difesa della “martoriata” Ucraina.
Accanto a lui, in questa terra così lontana e misteriosa, il più giovane nel Collegio dei Cardinali, il piemontese padre Giorgio Marengo, missionario della Consolata, prefetto apostolico di Ulan Bator.
Una Chiesa, quella della Mongolia, che è tutto un germoglio, un bocciolo che appena spunta, tenerissimo e indifeso. «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?», profetava Isaia.
Parole quanto mai attuali a quasi tre millenni di distanza che suonano da monito per una Chiesa, quella occidentale e opulenta, pallida e ingrigita, più impegnata a difendere posizioni di rendita che ad aprirsi alla fresca brezza dello Spirito.
Paolo Matta