«Il Mediterraneo ha una vocazione: quella di mettere in rapporto civiltà e continenti diversi, l’Africa, l’Asia e l’Europa, religioni e culture diverse. Nella storia, questo talvolta è degenerato in conflitto, lotta, estraneità o indifferenza, se non in inimicizia. Il Papa ha una visione del Papa profetica e di ampio respiro, secondo cui il Mediterraneo può essere un’occasione di pace proprio perché mette in rapporto il mare, popoli, nazioni, culture e religioni differenti». Monsignor Giuseppe Baturi, segretario generale della Conferenza episcopale italiana e arcivescovo di Cagliari, parla di migranti ricollegandosi alle parole pronunciate dal pontefice a Marsiglia in occasione degli “Incontri mediterranei” con i vescovi e i giovani. “Il Mediterraneo deve tornare ad essere laboratorio di pace”, ha detto Francesco.
«Recuperando l’idea di Giorgio La Pira, una possibile armonia nel Mediterraneo potrebbe avere effetti positivi in tutte le altre parti del mondo», sottolinea Baturi. «In questo preciso momento storico, rappresenta un luogo di crisi che può diventare sede per ricostruire una possibile, nuova convivenza. Il problema dei migranti si colloca dentro questo grandissimo scenario. Perché anche l’indignazione umana verso vite che vanno perdute e la vita di persone che tentano di recuperare per sé e per i propri cari un po’ di felicità, la possibilità di un futuro migliore, diventa per il Papa una visione complessiva, strategica, storica. Lavorare sul futuro oggi significa lavorare sui giovani, immaginando che possano instaurare progetti di pace. Il Papa a Marsiglia è venuto a dire che questa prospettiva deve diventare uno stile, ha parlato di una possibile assemblea sinodale e di creare rapporti più stretti tra le Chiese e le realtà del Mediterraneo».
A Marsiglia Papa Francesco ha usato quattro verbi su cui meditare: accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Ma monsignor Baturi ne propone un quinto: «Conoscere. Perché il fenomeno va conosciuto anche nei suoi numeri macroscopici, altrimenti si generano paura o emozioni non sempre giustificate dai dati reali. Dobbiamo conoscere i Paesi di provenienza, la religione, la vita che conducono i migranti regolarizzati, le cause per cui tante persone affrontano il rischio della vita, quali esperienze hanno vissuto nei Paesi di partenza o di transito rispetto alla dignità dell’Uomo. Questo ci può aiutare a creare legami tra le diverse culture».
Accogliere, secondo il segretario generale della Cei, «significa che la sorte dell’Uomo non può lasciare indifferente nessuno, è in gioco la vita e non soltanto l’aspetto della sua qualità. Le immagini di quella madre morta nel deserto con la sua bambina o di quanti cercano la salvezza nel Mediterraneo, non ci possono lasciare indifferenti. Deve suscitare in noi una reazione pienamente umana, di compassione e accoglienza. Il Papa sottolinea che un fenomeno così globale necessita di un’accoglienza altrettanto globale. Vi è la necessità di unire gli sforzi di più nazioni, e in particolare dell’Europa, e in essa di tutti i soggetti: le istituzioni statali, le organizzazioni non profit, il Terzo settore e la Chiesa».
Proteggere, invece, «significa che dobbiamo salvaguardare la vita dei migranti durante il tragitto. Dobbiamo pensare a forme di aiuto anche dei Paesi di transito e a forme di legalizzazione dei canali legali d’ingresso e di immigrazione, liberando gli uomini dalla necessità di fuggire per fame, povertà, discriminazione, disuguaglianza o guerra. Proteggere un uomo significa liberarlo dalla necessità. Dev’essere libero di restare là dove ha le radici, oppure di emigrare ma in condizioni di sicurezza. Per fare questo dobbiamo aiutare quei Paesi e cercare di costruire un rapporto con quei governi, quelle società e quelle Chiese, ma anche intervenire sulle cause. In poche parole, occorre una visione ampia e sinergica, non ristretta alle nostre coste. Dobbiamo sentirci corresponsabili dello sviluppo di quei Paesi, per esempio attraverso la cooperazione sociale. La Chiesa italiana scommette ogni anno 80 milioni di euro per progetti di sviluppo nei Paesi bisognevoli».
Vi è poi il terzo verbo, ugualmente importante: promuovere. «Il Papa sottolinea sempre che l’Uomo dev’essere protagonista del proprio riscatto. Gli immigrati devono essere protagonisti della loro vita, attraverso una valorizzazione delle loro culture, degli stili di vita e delle capacità». A questo concetto si ricollega il quarto verbo esaltato dal Papa: integrare. Attenzione, però: monsignor Baturi precisa che «non significa assimilare, omologare, rinunciare alla peculiarità di una tradizione anche religiosa. Più del 50% degli immigrati regolarizzati sono cristiani, per lo più di altri riti o tradizioni. Integrazione significa sentirsi parte di un’unica avventura, di dialogo, amicizia, contaminazione, per costruire una casa comune. Occorre accogliere la vita in pericolo, in sostanza. Non possono esserci ragioni giuridiche o di altra natura che possano giustificare la perdita della vita. È necessario, perciò, che questa accoglienza sia connessa a una capacità di integrazione e protezione, sia in Italia che nel resto d’Europa. Bisogna sviluppare i piani di inserimento: lavorativo per gli adulti e scolastico per i figli. Evitare ghettizzazioni in quartieri separati, in nome di una civiltà democratica. Questo deve avvenire su un piano di legalità, a cominciare dall’ingresso con il riconoscimento dello status giuridico di queste persone, che va accertato. Il fenomeno va saputo gestire, anche attraverso i canali legali d’ingresso».
Nel parlare del fenomeno migratorio, non si può ignorare un altro aspetto preoccupante: la condizione dei minori non accompagnati. «Un fenomeno in crescita, grave di per sé. C’è poi un problema nel problema, quello delle ragazze, che richiede un’attenzione particolare: non può essere semplicemente risolto attraverso procedure tese a garantire la sicurezza sull’età o le sanzioni previste dagli ultimi provvedimenti legislativi. Questo è uno dei campi in cui sperimentare quella sussidiarietà che rende solidale il nostro Paese. Parliamo di persone fragili, vulnerabili, che richiedono davvero un’attenzione particolare. Dobbiamo capire che cosa significa per un minore abbandonare la propria famiglia, le proprie radici, per affrontare un viaggio rischioso, doloroso in certi passaggi, con il rischio di morire. Quando parliamo di minori, dobbiamo sentirci tutti corresponsabili, desiderosi di fare ciascuno la propria parte. Il modo in cui affrontiamo certe situazioni decide il grado di civiltà della nostra società. Anche noi dobbiamo fare percorsi di conoscenza, così le paure vengono meno».
Monsignor Baturi lancia, infine, un altro allarme: «Ci sono problemi in termini di verità, di conoscenza della realtà. E spesso la realtà ci vede coinvolti, come occidentali, rispetto a situazioni di crisi. Non possiamo preoccuparci degli effetti senza pensare di essere comunque coinvolti in situazioni di guerre, sfruttamento dei territori e delle risorse naturali di certi Paesi. Un tema che l’estate ci ha consegnato drammaticamente è quello dei giovani, e quindi il tema educativo. Parliamo di situazioni di violenza, spesso in ambiti affettivi e familiari, tra giovani, che mostra incapacità di rispetto reciproco. Parliamo di amore alla vita. I giovani hanno bisogno di ascolto e di adulti credibili, capaci di introdurre all’amore alla vita, alla scoperta di un senso, di mobilitare le migliori energie per costruire un mondo migliore. Dobbiamo intercettare il dolore, il disagio, ma anche il desiderio di libertà, di felicità e di vita che è in loro. A darci speranza ci sono il milione e mezzo di giovani accorsi a Lisbona da tutto il mondo per ascoltare un grande vecchio come il Papa, che ha detto loro: “La vita è un bene, usatela per il bene”. Quando la proposta è credibile e il testimone è autorevole, il giovane ascolta e si mette in cammino».
(redazione Vita.it)