Laurearsi in ingegneria, sulle orme paterne, e poi scoprire che “analisi” e “disegno” sono materie che vanno oltre il calcolo matematico, sconfinando nella metafisica e nella teologia.
Inizia per Elisa Mura un percorso di discernimento («grazie anche al gesuita padre Giovanni Puggioni e il suo gruppo missionario») che la vede oggi, a 48 anni, sposa e madre di sette figli, laureata in teologia su un aspetto particolare della Lettera di san Paolo agli Efesini.
«Ho sempre sentito vivido il desiderio di approfondire la fede, sentendomi portata più per gli studi classici e umanistici: non nascondo che la scelta di ingegneria è stata un po’ forzata e condizionata dall’ambiente familiare».
Padre Puggioni, lo slancio missionario, le tre estati in Brasile…
«Siamo a metà anni ’90, è un sogno che riesco appena a intravedere ma che non si realizza».
Anche perché arriva l’amore per Giorgio, odontoiatra, il matrimonio, i primi figli.
«La vera crisi arriva a fine estate 2013. Sono un ingegnere ambientale, due specializzazioni, dottorato, consulente nella pubblica amministrazione in pianificazione e sviluppo di città e territorio. Sposata da quasi 14 anni, una quinta figlia di otto mesi tra le braccia. “Ho corso, ma adesso?”, pensai. Mio marito mi adocchia sul baratro di una depressione: “Studia, ci sei fatta apposta! Qualcosa, però, di non vendibile, di inutile”. Scorro l’offerta di alcuni corsi umanistici: sul monitor il programma del biennio filosofico in Teologia. Inutile quanto basta».
Una facoltà tutta al maschile, docenti e studenti, quasi tutti chierici in cammino verso i ministeri, il diaconato e il sacerdozio. Non deve essere stato facile…
«E infatti, perché donna, vengo indirizzata all’Istituto di Scienze religiose e non alla facoltà Teologica. Non era cosa da donna studiare teologia nel 2013 a 40 anni con cinque figli…»
Di sicuro per lei non c’è stato il fattore “tempo” o il terrore di finire fuori corso…
«Io non avevo il fiato sul collo di vescovi e sacerdoti come la maggior parte dei miei colleghi che si preparavano al presbiterato. È stata un’esperienza che ho vissuto con lentezza, un lusso enorme. Anche perché nel corso del quinquennio, nel frattempo, sono arrivati altri due figli».
Una tesi di laurea, la sua, quanto mai scivolosa, visto che – citando san Paolo – si parla di donna “sottomessa” al marito…
«Un termine, sottomissione, paradigmatico del cristianesimo. Con un nuovo approccio al testo, ho cercato di allontanarne una visione ideologica verso un altro genere di cedevolezza, libera da qualsiasi condizionamento sociale. Cedere, sottomettersi non è cosa da sconfitti o da vinti, ma è scegliere di non offendere il nemico e di accoglierlo in sé, proprio come il Cristo “sottomesso” per la salvezza dell’uomo».
Come ha vissuto il suo essere donna e mamma in questo contesto così particolare?
«Mai ho pensato di essere un caso a parte, neanche quando – al terzo anno – mi sono dovuta assentare dalle lezioni per il parto del nostro sesto figlio. Al contrario ho sempre pensato: “Posso farcela anch’io”. Magari in un clima più ecumenico, in una facoltà meno solitaria a formare ministri che, invece, imparano anche dalle lacrime della gente».
Una laurea con scarsi “sbocchi professionali”, per dirla in linguaggio scolastico. Come pensa di far fruttificare i suoi studi?
«Viviamo ancora un momento storica di una Chiesa che è chiusa alle donne, se sono brave peggio… Una strada potrebbe essere quella dell’insegnamento della religione nelle scuole, ma il mio mondo è la ricerca, la formazione più che l’insegnamento. Al momento sto preparando alcune pubblicazioni su alcuni nuclei interessanti presenti nelle Lettere paoline. A chi mi chiede “dove finisce tutto questo studio?”, rispondo che io ho solo trovato l’inizio. Vivo con l’appetito di chi ha imparato a gustare, temendo di aver lasciato molto. A cominciare dal Risorto “che ci precede in Galilea”. Disse: “Là mi vedranno”. E fu una donna a raccontarlo».
Paolo Matta