LE UNDICI ORE DEL PAPA A SARAJEVO JERUSALEM D’EUROPA

Il Papa a Sarajevo per contribuire «al consolidamento della fraternità, della pace, del dialogo interreligioso e dell’amicizia»

ANDREA TORNIELLI
LA STAMPA – INVIATO A SARAJEVO

Undici ore nella «Gerusalemme d’Europa», la città da dove scoccò la scintilla della Grande Guerra, teatro in tempi molto più vicini a noi di un terribile conflitto fratricida, tristemente famoso per i cecchini che dalle colline sparavano su tutto ciò che si muoveva e per gli stupri etnici. Undici ore in un Paese che si sta islamizzando e dove cresce l’estremismo di stampo wahabita. Undici ore per incontrare autorità politiche, popolo cattolico, uomini delle diverse religioni e giovani; e per cercare di sanare le ferite ancora sanguinanti con un invito al perdono e alla convivenza pacifica.

Papa Francesco a Sarajevo, capitale di un Paese costituito da due entità territoriali – la Federazione di Bosnia Erzegovina e la Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina – per un altro dei suoi viaggi-lampo nell’Europa ferita. Una trasferta annunciata lo scorso 1° febbraio all’Angelus, chiedendo preghiere perché sia «di incoraggiamento per i fedeli cattolici, susciti fermenti di bene e contribuisca al consolidamento della fraternità, della pace, del dialogo interreligioso e dell’amicizia». E di pace, dialogo, fraternità, c’è davvero bisogno in questi luoghi, vent’anni dopo la fine della sanguinosa guerra civile che ha visto contrapposte diverse nazionalità – croata, bosniaco-musulmana e serba – e si è conclusa con l’intervento dell’Onu e della Nato.

«Questo Paese, dopo la dura e sanguinosa guerra – ha affermato il cardinale Vinko Puljić, arcivescovo di Sarajevo – non è ancora guarito dalle ferite profonde. Anche se il conflitto si è fermato, non si è creato uno stato di diritto in grado di difendere ogni identità personale, religiosa ed etnica. Le grandi potenze che avevano imposto gli Accordi di Dayton hanno lasciato ai politici locali l’incarico di costruire il futuro; ma questi sono rimasti solo osservatori. Ciò non potrà mai portare a una pace stabile, giusta e prospera».

Le conseguenze della guerra, ha spiegato recentemente il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin «si sono fatte sentire soprattutto sulla comunità cattolica, che praticamente – dagli inizi degli anni Novanta a oggi – si è quasi dimezzata: da 800mila a 400mila persone. Ormai in alcune parrocchie non restano che poche famiglie, e soprattutto anziani. Oggi si registra soprattutto il fenomeno dell’emigrazione dei giovani, causata dalla disoccupazione, dalla mancanza di lavoro e dalla ricerca di prospettive migliori in altri ambienti».

Tra i fenomeni degli ultimi anni c’è la difficoltà di edificare chiese per i cristiani, mentre i luoghi di culto islamici vengono finanziati «dai petrodollari sauditi», come ripete l’arcivescovo Puljić. Ma ci sono anche segni di speranza. Tra questi il fatto che la presenza del Pontefice è attesa da tutti, e anche le autorità musulmane guardano a Francesco come «fratello, messaggero di pace», apprezzando in particolare il suo messaggio in favore dei poveri.

La visita di Bergoglio in Bosnia Erzegovina è la terza di un Papa negli ultimi diciotto anni. Nell’aprile 1997 venne a Sarajevo Giovanni Paolo II, dopo aver dovuto rinunciare al viaggio nel settembre di tre anni prima, perché i serbi avevano avvertito che non sarebbero stati in grado di garantire la sua sicurezza. E il giorno precedente all’arrivo di Wojtyla venne scoperto dell’esplosivo sotto a un ponte su cui sarebbe passato il corteo papale. A Giovanni Paolo II venne consigliato di evitare il percorso previsto, ma lui non volle sentire ragioni. E da Sarajevo gridò «Mai più la guerra!», ricordando che «Dio perdona solo a chi ha il coraggio di perdonare».

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