Parole pesanti come macigni.
Poteva salvarsi.
Poteva tentare di salvarsi, quanto meno.
L’angioplastica è intervento oramai quasi di routine: si tratta di allargare, disostruire, aprire quando completamente chiuse le coronarie sclerotizzate e ripristinare una corretta circolazione del sangue.
Una ciambella di salvataggio.
Ma il naufrago, seppure in balia di onde sempre più minacciose, ha invece scelto di prendere tempo.
«Ne voglio parlare, prima, con i miei cari…»
Ma di tempo, oramai, non ce n’era più.
È stata più forte la paura.
L’hanno rivelato i medici che l’hanno accolto in ospedale, l’hanno monitorato e, in un ultimo, disperato pressing, gli hanno suggerito questo intervento in piena “zona Cesarini”.
«Ha detto di no perché, ce lo ha confessato, in quel momento aveva troppa paura».
Paura, forse, della sala operatoria, paura di morire sotto i ferri, paura della prospettiva (in un futuro prossimo, magari) di vedersi aperto il petto per impiantarvi qualche bypass, paura di un’insopportabile lungodegenza con plaid e poltrona.
E allora no. Niente intervento.
E così, Sorella morte, ha chiuso la partita della sua vita.
Senza tempi supplementari.
Gigi Riva si era arreso alla paura.
Come tanti, di fronte allo spettro della fine.
Un tratto, della sua complessa e affascinante umanità, che – se possibile – ce lo rende ancor di più vicino, prossimo, familiare a tutti noi.
Quante parole, da adesso e chissà per quanti giorni, si sprecheranno per ricordare il mito, Rombo di Tuono, l’implacabile cannoniere, il bomber diventato sardo per sempre…
Quante amicizie millantate, quante foto postate, quanti like…
E quanto fastidio (mi piace pensare) per chi invece amava silenzi, frasi brevi, semplici sguardi o cenni d’intesa.
Gigi Riva al posto di Carlo Felice in Piazza Yenne, «gli intitoleremo lo stadio»… chissà quante altre strampalate e strombazzate proposte.
Tutte a nascondere, coprire, esorcizzare un epilogo, in fin dei conti, troppo “normale”.
Come la paura di morire.
Paolo Matta