Pubblichiamo integralmente un’intervista, pubblicata dal quotidiano “Avvenire” con Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, sul rapporto cattolici e politica.
Ci sono anche i cattolici fra i “sonnambuli” descritti dall’ultimo rapporto Censis, e questo atteggiamento fra l’impaurito e il rinunciatario caratterizza anche il loro atteggiamento politico. Per Giuseppe De Rita «il sonnambulo è un cattolico che compie una serie di peccati di omissione, un cittadino egoista per paura che tralascia di fare tante cose, dal civile al religioso, dall’andare a votare all’andare a messa». Per il fondatore del Censis, si tratta di ripartire dalle fondamenta, «dalla pre-politica, dalla realtà. Non esiste cristianesimo che non si occupa della realtà.
Pagnoncelli evidenziava però che anche i cattolici praticanti finiscono spesso per chiedere alla politica solo di migliorare la loro condizione.
È una situazione generalizzata, di una politica che si occupa solo degli interessi singoli e non di mediare con gli interessi collettivi, nella prospettiva del bene comune. Imperversa la politica dei “bonus”, lo Stato che regala, a questo o a quello. Senza una “visione”, una vera proposta politica.
A elaborarla dovrebbero essere i cosiddetti corpi intermedi, voluti proprio dai cattolici in Costituzione.
Ma noi assistiamo alla loro desertificazione. La dottrina sociale della Chiesa nasce con Leone XIII, a fine Ottocento, ma allora c’erano dei sindacati forti, c’era la lega delle cooperative “rosse” e c’erano quelle “bianche”, le casse di mutualità: una boscaglia di cespugli intermedi. Ci sono stati poi i coltivatori diretti, che sono andati oltre la logica di classe dei braccianti, per farsi piccoli imprenditori. La grande intuizione della Dc fu quella di dare voce a queste realtà, creando un interclassismo dinamico e un ascensore sociale che permise a tanti poveri e analfabeti di affrancarsi, o di affrancare i propri figli da quella condizione.
Tutte le sigle che cita ci sono e operano ancora.
Ma è sotto gli occhi di tutti che la politica è diventata un’altra cosa, cerca il rapporto diretto con i cittadini, senza mediazioni. Disancorata dalla realtà, che è costituita anche dai tanti luoghi in cui la dignità dell’uomo si realizza, come stabilisce la Costituzione, dalla famiglia ai partiti, dai sindacati alle associazioni. Manca del tutto una dialettica sociale.
Un cattolico che vuol partecipare oggi, da dove può iniziare?
Bisogna intendersi sul significato di partecipare. Se uno vuol partecipare alla vita politica per sua ambizione non è neanche tanto difficile. Le strutture di partito ci sono e sono anche scalabili facilmente, lo ha fatto Renzi nel Pd, e ora Schlein con l’operazione primarie; lo ha fatto Conte con il M5s, Salvini nella Lega. Il problema si pone per chi ha voglia di dare il suo contributo alla collettività, senza l’ambizione di fare politica in prima persona. Dove va, e come fa, in questa situazione?
Lei ha partecipato a molti incontri in ambito cattolico per una nuova progettualità politica. Realtà che però faticano a rendersi visibili, incisive. Che giudizio ne ha tratto?
Li ho trovati molto “caldi”, interessanti e carichi di passione. Ma poi manca la perseveranza, la consapevolezza di dover fare una lunga traversata per cambiare le cose. Bisogna riprendere l’impegno dal basso, dagli enti locali, dalle comunità montane, dalle parrocchie, dal Terzo settore.
Non è che manchi, in Italia, l’impegno del Terzo settore.
Ma manca la capacità di fare il passo ulteriore, decidendo che cosa fare da grandi per elaborare una proposta politica.
Sta parlando di un partito?
Sarà per inclinazione professionale, ma preferisco parlare di pre-politica. Non in modo astratto. Parlo di proposte politiche chiare e puntuali, su temi specifici, in realtà concrete.
L’arcivescovo Paglia parla anche della necessità di una nuova pastorale.
Ho in mente una mia personale esperienza, nel 1974, quando il cardinale vicario Ugo Poletti mi coinvolse con monsignor Di Liegro, monsignor Clemente Riva e Luciano Tavazza per una riflessione sui “mali di Roma”. Il cardinale, scherzando mi disse che era dai tempi di Federico Barbarossa che un laico non parlava nella Cattedrale di San Giovanni. Due anni dopo, nel 1976, ci fu il convegno “Evangelizzazione e promozione umana”, che aprì una stagione di grande impegno nella Chiesa e di grande rinnovamento politico. Bisogna riprendere a fare questo: promozione umana.
La Settimana sociale di Trieste può essere l’occasione?
Certamente, ma bisogna farsi carico maggiormente di quel che il Papa chiede in continuazione, di uscire dal nostro ambito, non basta parlare fra noi
Elaborare proposte pre-politiche può essere di aiuto anche a chi ha scelto di fare politica ma, in questo quadro asfittico, fa fatica a incidere?
Sicuramente. Bisogna ripartire del livello parrocchiale e diocesano. Scegliere dei temi, fare delle proposte operative. Il cristianesimo nasce nella realtà, e si è sempre sviluppato nella realtà. Poi, per paura dei protestanti e dei comunisti, abbiamo preso un po’ l’abitudine di limitarci a professare la dottrina, la verità, con una certa astrattezza, Senza più appassionarsi alla realtà.
Intanto i cattolici in politica sono divisi, spesso impegnati a inviarsi scomuniche a vicenda.
Non mi pare saggio. Siamo già pochi, dovremmo almeno cercare di andare d’accordo fra noi…
L’idea di una nuova Camaldoli europea lanciata dal cardinale Zuppi la condivide?
Condivido. Si tratta di riprendere in mano, tutti insieme, una grande profezia di pace e sviluppo. Ma servono uomini e cristiani all’altezza di questa grande sfida.
I giovani, dopo decenni di crisi della politica, hanno un’idea molto vaga dell’impegno il bene comune. Non si rischia di offrire loro una risposta a una domanda che non si pongono?
Bisogna allora lavorare con loro perché questa domanda torni a nascere. Non possono loro rassegnarsi a un cristianesimo che rinunci a incidere, e non noi possiamo trasferire loro un’idea così ridotta, miope e falsata, del cristianesimo.