Da qualche giorno è possibile nel nostro Paese dividere chi vive in circostanze di fragilità sociale in categorie.
Sembra questo il criterio che sta alla base della riforma del Reddito di cittadinanza contenuta all’interno del “decreto lavoro”, approvato il primo maggio dal Consiglio dei ministri nella data simbolica della festa dei lavoratori.
Il provvedimento sdoppia il contributo preesistente Rdc (Reddito di cittadinanza) in due differenti strumenti: l’Adi (Assegno d’inclusione) e il Sfl (Supporto per la formazione e il lavoro).
Entrambi, per come è cresciuta e si manifesta la povertà assoluta in Italia (6 milioni di persone), rischiano purtroppo di mancare completamente l’obiettivo. A riforma fatta, senza alcun confronto con le organizzazioni sociali che si occupano nel nostro Paese di povertà, risalta, su tutto l’impianto del provvedimento, l’applicazione di un principio selettivo: per la prima volta, rispetto alle misure precedenti, si perde l’universalità del diritto e, con esso, la prospettiva di una vita dignitosa per tutti.
I poveri vengono divisi in due categorie: gli occupabili, coloro presumibilmente in grado di essere inseriti nel mercato del lavoro, e i non occupabili, definiti tali per condizioni di età e composizione del nucleo familiare.
La povertà si divide per categorie di meritevoli e non meritevoli senza che il metro di valutazione trovi pari criterio in altri Paesi europei.
Il provvedimento arriva in un momento di particolare difficoltà economica in cui le fragilità sociali potrebbero crescere e, con esse, la forbice della disuguaglianza.
Tra qualche mese, circa 213 mila persone perderanno l’unico sussidio che garantiva un minimo vitale, evitando di non scivolare in una condizione di povertà estrema. La stessa sorte potrebbe toccare ad altre circa 200 mila persone con lo scadere dell’anno.
Molte le questioni irrisolte: come faranno coloro che non riusciranno a trovare una occasione di formazione o di lavoro a non scivolare in una condizione di povertà estrema? I Comuni, insieme alle agenzie per il lavoro, chiamati a una presa in carico dei senza sussidi e senza occupazione, saranno in grado di accompagnare queste persone nel processo di acquisizione di competenze che gli consentiranno un inserimento lavorativo?
Queste solo alcune delle perplessità che dovrebbero essere affrontate e corrette nel dibattito sociale e in sede parlamentare. Ciò affinché non si affermi una cultura secondo la quale la povertà è una colpa piuttosto che una condizione complessa, multidimensionale e a volte indotta, di cui uno Stato ha il dovere di farsi carico.
di Antonio Russo
Portavoce nazionale “Alleanza italiana contro la povertà”
(da Città Nuova – giugno 2023)