Viviamo, in queste giornate decembrine, il tempo cristiano dell’Avvento, quello in cui si fa memoria della venuta del Bimbo di Betlemme nella sua piena umanità. Attesa iniziata 4000 anni fa nella fertile Mesopotamia con Abramo, padre nella fede di ebrei, islamici e cristiani. Avanti negli anni, lui e sua moglie, rispondono alla voce dell’unico Dio che concede loro il dono dell’unico figlio: Isacco che, nella lingua semitica, significa “Sorriso di Dio”.
Questo Dio, ancora nascosto e misterioso, chiederà al vecchio patriarca quanto di più assurdo e tremendo: sacrificargli il proprio figlio, il suo unico figlio. È solo la prova finale per Abramo che avrà salvo Isacco, risparmiato per la sua grande fede: dalla sua discendenza, duemila anni dopo, “nella pienezza dei tempi” nascerà il Messia, Gesù di Nazaret.
Perché allora, questo Dio – che, in frangenti simili, ci appare ancor più «nascosto e misterioso» – ha voluto il sacrificio, cruento e devastante, di don Alberto, “Sorriso di Dio” del terzo millennio?
Se lo chiedono, ammutoliti e sconvolti, quelle migliaia di giovani che ha conosciuto nelle scuole, agli incontri-festa della Pastorale giovanile, nelle comunità parrocchiali in cui ha operato con una passione e una “allegria” cristallina e, pertanto, virale e autenticamente missionaria.
Di questo “far web” che è il nostro mondo digitale (poco “nostro” in verità, perché “nelle dita” dei giovani e giovanissimi di oggi), Alberto Pistolesi era certamente una icona di primo piano: lo testimoniano le migliaia di post, commenti, foto, video che hanno invaso la rete su tutti i canali comunicativi. Uno tsunami mediatico che, per tre giorni, ha travolto tutto, oscurando la pandemia e le sue varianti, la politica, lo sport. Lo testimonia la diretta web delle sue duplici esequie. Lo testimonia, purtroppo, anche qualche sgangherata incursione poco rispettosa, soprattutto in questo momento di straziato dolore, della sfera più intima e riservata (e, per ciò stesso, “sacra”) del sacerdote scomparso così tragicamente.
Novello Isacco, don Alberto – e non solo a chi si è posto in cammino verso la Grotta di Betlemme – indica la direzione giusta, quella del sorriso dialogante, accogliente, che abbatte barriere e pregiudizi, che sgretola muri e divisioni. Prete «sempre in uscita», come non si stanca mai di ricordare e ammonire Papa Francesco, pronto a curare le ferite in quest’immenso «ospedale da campo» che è l’umanità tutta e con lei la stessa Chiesa, troppo spesso autoreferenziale e poco “sinodale”, chiamata invece ad ascoltare e sempre servire.
Invitato da Dio a uscire dalla sua tenda di nomade e pastore, ad Abramo fu chiesto di “alzare la testa e guardare verso il cielo”, in una notte stellata come solo in pieno deserto si può contemplare. «Conta le stelle, se ci riesci: tale sarà la tua discendenza», fu la voce e la promessa di Dio.
Di fronte a una perdita così dolorosa e lacerante, è un invito che ritorna pressante: uscire dalla tenda del dubbio e del pianto e, fra quei miliardi e miliardi di stelle, alzato lo sguardo dalla miseria e finitezza della terra, contemplarne una che brilla un pochino di più. È, per il momento, quel “Sorriso di Dio” che riesce, sempre e comunque, a dare un senso all’oggi e al domani.
Paolo Matta