Domenica 28ma Tempo Ordinario – Anno C – 9 ottobre 2022
Letture: 2 Re 5,14-17; 2 Tim.2,8-13; Lc.17,11-19
Forse è successo anche a noi di sognare, come i dieci lebbrosi del Vangelo o come il generale siriano Naaman, che un miracolo potesse un giorno cancellare in noi le ferite dell’esistenza, rimettere a zero il contatore della nostra vita! Talvolta, non abbiamo forse il sentimento che la vita non sia stata troppo benevola con noi, che avremmo il diritto di avere una nuova possibilità?
Indubbiamente è questa la ragione per cui questi dieci lebbrosi, di cui ci parla il Vangelo di Luca, si sono rivolti a Gesù, per gridargli la loro speranza. Perché avevano il presentimento che quel giovane rabbi potesse offrire loro quella seconda possibilità che avevano tanto sognato. E il Vangelo testimonia che furono effettivamente esauditi: tutti e dieci furono guariti.
La storia si sarebbe potuta fermare lì, se Gesù non avesse voluto condurci oltre questa conclusione felice. Quegli uomini, la cui speranza era stata pienamente esaudita, avevano davvero saputo cogliere l’opportunità che era stata loro offerta? In effetti, uno solo era ritornato per ringraziare e rendere gloria a Dio! Uno solo, e Samaritano, per di più, era stato capace di cogliere il vero miracolo che si era appena prodotto nella sua vita. Mentre i suoi nove compagni avevano rimosso la sofferenza di tutti quegli anni di esclusione e di miseria, per dimenticarla per sempre, lui solo aveva saputo riconoscere il miracolo della propria guarigione. Perché allora un’ingratitudine del genere?
Ma si tratta proprio di ingratitudine? Non si tratta piuttosto di quell’incoscienza così comunemente diffusa nel nostro mondo? In effetti, non ci comportiamo anche noi come quei nove lebbrosi, troppo contenti di esserci sottratti alla pena che ci soffocava, alla difficoltà che ci impediva di vivere, senza avere il coraggio di volgerci indietro per vedere quello che era veramente successo? Non preferiamo forse anche noi l’oblio e la fuga in avanti anziché l’umile rilettura, talvolta dolorosa, degli eventi che intessono poco a poco la nostra storia di uomini?
Ma rinunciando a cogliere il senso profondo di quanto ci succede, finiamo per passare accanto alla nostra vera esistenza, incapaci di riconoscere le impronte che Dio ha lasciato, discretamente, sulla sabbia dei nostri giorni. La nostra paura di osservare, la nostra voglia irresistibile di cancellare tutto ciò che ci ha fatto soffrire, tutto questo ci impedisce di riconoscere quell’altra storia che è la nostra, la storia santa che siamo noi, in cui Dio viene a rivelarsi.
Certo, siamo pronti a fare talvolta grandi sforzi, ad attaccare grandi battaglie, come Naaman, per uscire dagli stalli in cui ci troviamo, o per cercare Dio, come diciamo spesso. Ma quanti, tra noi, sono pronti a riconoscere che la loro esistenza è disseminata di quegli imprevisti di Dio che vengono a stravolgere i nostri progetti? Quanti tra noi sono pronti a riconoscere che Dio è proprio lì dove non l’avevamo cercato?
San Paolo, nella sua lettera a Timoteo, ha avuto il coraggio di andare ancora oltre. Mentre si trovava in catene, prigioniero, è arrivato fino a considerare la propria sofferenza come una storia santa. Lì dove noi non vedremmo che miseria e decadimento, Paolo ha osato riconoscere il dito di Dio. Ma era già stato lui ad avere il coraggio anche di proclamare, contro ogni evidenza, che tutto concorre al bene di coloro che Dio ama!
Dom Guillaume – monaco trappista
www.valserena.it