Forse, parlando di migranti a Cagliari, la parola emergenza è la prima che dovremmo tutti cancellare dal nostro vocabolario.
Perché, oggi e per un futuro imprecisato, saremo interpellati e coinvolti, in arrivo dal Sahel al Corno d’Africa, dalla Cina al Golfo Persico, da carovane di donne, uomini e bambini (molti e spesso non accompagnati) a caccia di una speranza che si chiama Europa.
Questa è (e sarà) la quotidianità, la ferialità. Piaccia o no.
Con molta probabilità, quello che più ci disturba è proprio questa ineluttabilità, l’essere costretti a far di conto con questa realtà. In una parola: il dovere di accogliere.
E allora scalciamo.
Sopportiamo i filippini, che cucinano e ci puliscono le case, o le ucraine e le rumene, che cambiano pannoloni e lavano il sedere ai nostri anziani. I cinesi per ora li ignoriamo perché cuciono e rammendano, fanno ristorazione e commercio a buon mercato ma, soprattutto, non si vedono e non si sentono.
Ma questi eritrei, somali, sudanesi proprio no. Questa è la verità che si annida nelle nostre menti, bianche e ipocrite, come nelle nostre coscienze, nere come la razza che vorremmo esorcizzare, ma senza riuscirci.
Perché lo sappiamo che scappano da una guerra combattuta con le armi che noi abbiamo prima creato e poi venduto.
Scappano dalla fame che è figlia della nostra opulenza, dei nostri sprechi e stravizi che lascia loro briciole e scarti.
Scappano da quel Terzo o Quarto Mondo che abbiamo inventato noi, terrestri del nord, che stritoliamo senza pietà il sud del pianeta.
Perché Cagliari non chiede ai suoi anziani cosa è stato su sfollamentu e lo racconta a giovani e bambini, a quella “generazione di mezzo” cresciuta nella cultura del superfluo e dell’effimero?
Quando a decine di migliaia i cagliaritani scappavano dalla guerra, dalle bombe, dalle sirene degli allarmi, spesso tardive, dagli spezzoni che mutilavano senza pietà, dalla fame e dai pidocchi. I loro barconi erano sporche e puzzolenti tradotte, carri a bestiame, mezzi di fortuna.
La loro Lampedusa i paesi del centro e nord Sardegna dove hanno trovato accoglienza e condivisione con il poco che c’era e che bastava per tutti.
Troppo pochi conoscono questa realtà, rimasta fra i ricordi segreti in mezzo alle camicie e alle maglie nel fondo dei cassetti dei nostri comò.
Sul tavolo della storia, oggi, le carte si sono rovesciate. Questo dramma turberà per sempre le nostre notti e i nostri sogni tranquilli.
Alla fine, non potremo più sfuggire al dovere di accogliere.
Un’Europa che conta mezzo miliardo di anime è scandaloso che non riesca ad attrezzarsi per dare rifugio e ospitalità a due, fossero anche tre, milioni di profughi, distribuendo equamente questo carico fra tutti i paesi dell’Unione in proporzione alle loro risorse.
Ne ha diritto, ma soprattutto il dovere.
Se non vuole correre il rischio di finire nel vortice di questa marea che oggi vuole respingere.
Paolo Matta