Guarendo il lebbroso, scomunicato per legge, Gesù è nello stesso tempo escluso, messo da parte
VI domenica del Tempo ordinario – Anno B (11 febbraio 2018) Letture: Lv 13, 1-2,45-46; 1 Cor 10,31-11,1; Mc 1, 40-45
Nel libro del Levitico, era prescritto che la persona colpita dalla lebbra doveva abitare “fuori dell’accampamento”. Ma dopo aver guarito il lebbroso, è Gesù stesso che deve rimanere “fuori, in luoghi deserti”, come dice il vangelo di oggi. Avendo guarito la malattia del lebbroso, Gesù prende su di sé la pena della malattia. Il lebbroso è di nuovo integrato nella comunità. Ma ormai è Gesù che deve allontanarsi, vivere fuori dalla città degli uomini, fuori dal popolo, in luoghi deserti.
A questo livello simbolico, il vangelo di oggi riprende difatti l’immagine dell’agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo. Facendo il bene, Gesù è nello stesso tempo escluso, messo da parte. Questo potrebbe sembrare strano. Difatti, sembrerebbe piuttosto normale che Gesù sia pienamente integrato nel popolo. Invece, il suo dono lo mette da parte, lo esclude. È ormai obbligato di vivere in luoghi deserti. Non ha più posto tra gli uomini.
Questa realtà ci ricorda non solo ciò che abbiamo già sentito a Natale: “non c’era posto per lui nell’albergo”, ma anche ciò che è successo durante la Passione quando il vangelo dice che egli “doveva morire fuori le mura della città”! L’essere fuori, l’essere messo da parte, è un elemento importante, un elemento centrale nella vita di Gesù. Dalla sua nascita alla sua morte, Egli ha vissuto la sua vocazione di Figlio dell’uomo, di Figlio di Dio, come una vocazione alla solitudine.
Questo ci fa capire meglio quale possa essere la tentazione di un cristiano, anche nei nostri tempi. Se guardiamo con onestà la realtà, dobbiamo riconoscere che è molto più facile riunire una folla per protestare e criticare, che per lodare e ringraziare. Per fare il bene o dire il bene, ci vuole una decisione personale, un impegno responsabile che non è necessario nella critica o nel rifiuto. E questo si vede molto bene in alcuni brani dei vangeli.
Per esempio, per condannare l’adultera, la folla è molto compatta e unita, ma per riconoscere il proprio peccato, ognuno parte, uno dopo l’altro, cominciando dagli anziani.
C’è una dinamica del male che abbandona la responsabilità e ci fa perdere la nostra vera identità, perché ci porta a agire come gli altri. E c’è una dinamica del bene che rende più responsabili e liberi, ma che ci obbliga a fare scelte personali e responsabili. Perché fare il bene, dire il bene non sono cose facili. Lo sperimentiamo ogni giorno. Quando ci incontriamo, dopo cinque minuti, c’è sempre la tentazione di criticare e di giudicare. Una persona che loda e dice del bene non interessa nessuno.
Così possiamo capire meglio la via che ci propone il Signore Gesù, nel vangelo di oggi. Difatti, se scegliamo di seguirlo, se scegliamo la via del bene, dovremmo crescere nella nostra identità profonda. Non potremmo più accontentarci di ripetere ciò che si dice e si pensa, ma dovremmo fare scelte ogni tanto impegnative e spesso coraggiose. Non si può scegliere la via del bene senza accettare di crescere, e dunque di sperimentare la solitudine della responsabilità. Certo, è più facile continuare a seguire, senza pensare. Ma non è per questo che il Signore è venuto in questo mondo. Egli ha bisogno di uomini e donne veramente liberi!
Dom Guillaume trappista, cappellano Monastero Cistercense Valserena
(www.valserena.it)