III domenica di Quaresima – Anno C – 20 marzo 2022
Letture: Es 3,1-15; 1 Cor 10,1-12; Lc 13,1-9
Forse Mosè era passato decine se non centinaia di volte in quel posto, in compagnia del suo gregge. Ma non aveva visto nulla. Il suo cuore era ancora troppo occupato da quello che era successo laggiù, in quel lontano Egitto da cui era dovuto fuggire, parecchi anni prima. Del resto, da quanto tempo errava così nel deserto, dietro i suoi pensieri? Ormai non lo sapeva più. La Bibbia ci dice che c’erano voluti quaranta anni, quaranta dolorosi e interminabili anni, perché il suo occhio si aprisse una buona volta allo strano spettacolo di quel roveto che bruciava senza consumarsi. Il tempo aveva finito per avere la meglio sulla sua resistenza.
Con Mosè, come con il popolo d’Israele condotto nel deserto da quello stesso Mosè, Dio si era preso il suo tempo. Al punto che gli Israeliti avevano finito per stancarsi di quell’interminabile pazienza di Dio nei loro confronti. La nube che li precedeva e aveva fatto loro attraversare il mar Rosso a piedi asciutti, avevano finito per non più vederla. La manna che raccoglievano ogni giorno sul suolo del deserto per nutrirsi, avevano finito per esserne disgustati. Quella roccia spirituale alla quale si dissetavano nelle solitudini desertiche, avevano finito per stancarsene. Il tempo aveva finito per logorare anche il loro stesso stupore. Il tempo e la pazienza di Dio erano diventati i loro peggiori nemici.
Mentre dopo quarant’anni di vita errabonda Mosè si era accostato alla viva fiamma dell’amore di Dio, ecco che il popolo d’Israele, invece, aveva finito per stancarsi di quella presenza che lo guidava verso la terra promessa. In verità, il tempo degli uomini non assomigliava per niente al tempo di Dio.
Come per coloro che si accalcavano attorno a Gesù e attendevano con impazienza la fine dei tempi, allo stesso modo, per ognuno di noi, questo problema si pone ancora ai nostri giorni: la questione non è di durare il più a lungo possibile. Il massacro perpetrato da Pilato o l’incidente accaduto alla torre di Siloe non ci danno alcuna percezione sul tempo di Dio, perché si situano nel tempo degli uomini. Il tempo di Dio non si misura al numero degli anni.
Con la parabola del fico, Gesù vuole renderci attenti a quest’altra dimensione del tempo, al tempo di Dio. Senza che ce ne rendiamo conto, ci fa scivolare in un’altra visione del tempo, anche se, all’inizio, sembra utilizzare il nostro linguaggio. In effetti, il padrone del terreno viene ormai da tre anni a cercare qualche frutto su quella sua pianta e non ne trova. È ormai tempo di fare piazza pulita, tempo di tagliare l’albero inutile che sfrutta il terreno e disturba la crescita delle altre piante. Il tempo degli uomini non ha dato nulla. È allora che entra in scena il tempo di Dio, un anno ancora, solo un po’ di tempo. Ma se la misura assomiglia un po’ alla nostra, è invece tutt’altra.
Perché se Dio ci dona del tempo, se ci chiede di lasciare il tempo, non è di tempo contabile che si tratta. Ma di un tempo di amore e di cura, un tempo che attende e spera, un tempo che non si lascia vincere dall’apparente sterilità e inutilità dei giorni che passano. Il tempo di Dio è un tempo che sa che il frutto verrà un giorno, se solo sappiamo attendere ancora un po’. Perché il tempo di Dio non trasforma prima di tutto il fico, ma l’uomo che ha piantato il fico. Il tempo di Dio mette nel cuore dell’uomo l’invincibile speranza di quel Dio che sa attendere, contro ogni speranza. Quel tempo di Dio è quello del padre che attende il figliol prodigo per strada, è quello del pastore che parte alla ricerca della pecora perduta, il tempo di un immenso amore che nulla può scoraggiare, che nulla, mai, potrà stancare.
Dom Guillaume – Cappellano Monastero Cistercense di Valserena (Pisa)
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