di Gabriele Ferrari
La notizia della morte di don Carlo Molari, avvenuta lo scorso 19 febbraio, ha risvegliato nel mio cuore ricordi cari e sentimenti di simpatia e gratitudine per quest’uomo che ha fatto del bene alla Chiesa e anche alla nostra famiglia missionaria. Don Carlo era un uomo intelligente, buono, generoso e, da buon romagnolo, di grande umanità. Io sentii parlare di lui quando ero ancora un giovane missionario in Burundi; leggevo i suoi articoli sulle riviste di teologia e pastorale nel periodo del post Concilio, idee molto preziose per la missione e più ancora quando fui di ritorno in Europa. Gli articoli che cercavo erano di teologia fondamentale, pastorale e catechetica, articoli interessanti che mostravano un uomo dagli orizzonti vasti e coraggiosi.
Ne ricordo uno in particolare in cui affermava che di Dio non si può a stretto rigore dir nulla e che una buona teologia dovrebbe accettare una forma di afasia.
Parlava un linguaggio teologico nuovo che affascinava e affrontava temi di frontiera. Ricordo in particolare un libro, La fede e il suo linguaggio (1972) che era allora quasi clandestino. Sapevo che faceva parte del comitato di redazione di Concilium e che proprio per il suo coraggio e il suo linguaggio libero anche se sempre rispettoso, era stato in passato – parlo degli anni ‘70-80 – oggetto di qualche riserva da parte del Sant’Ufficio pur senza incorrere mai in una condanna. Per questo ci fu sconsigliato di chiederlo come insegnante per il nostro ITS (Istituto Teologico Saveriano) di Parma: sarebbe stato difficile ricevere l’affiliazione da parte dell’Università Urbaniana di Roma. Tutto questo però bastava per noi, giovani missionari, per rendercelo… simpatico. Si capiva che don Carlo faceva parte di quel gruppetto di teologi italiani (pochi allora) che tentavano vie nuove della teologia al fine di renderla attuale e ispiratrice per una pastorale rinnovata nel dopo Concilio.
Quando fui nominato direttore del corso di formazione permanente dei Saveriani a Tavernerio, i cosiddetti “Tremesi”, don Carlo era già parte del team di insegnanti del corso e per sette, otto anni, fu uno dei maestri immancabili. Era incaricato di offrire ai missionari una visione nuova e insieme complessiva della vita spirituale a partire dalla rinnovata teologia postconciliare. Erano gli ultimi anni ’90 e già la teologia aveva aperto i suoi orizzonti, ma per noi missionari, assenti in quegli anni dall’Italia e dall’Europa, spesso si trattava ancora di argomenti abbastanza nuovi.
A don Carlo era riservata la terza settimana del corso per svolgere un tema secondo noi importante per la ripresa e la crescita umana e spirituale dei missionari e missionarie reduci dalla missione. Questa settimana si intitolava: Esperienza personale di fede nella maturità: la vita spirituale e la maturità della fede. Un argomento sicuramente impegnativo e multidisciplinare che affidammo a don Carlo, il quale l’assunse con molto entusiasmo. Anno per anno aggiornava i contenuti e la bibliografia del suo testo e alla fine nel 2007 lo pubblicò presso la Cittadella di Assisi con il titolo Per una spiritualità adulta.
Partendo dal nuovo orizzonte culturale e dalla conseguente nuova impostazione della teologia suggerita dalla costituzione pastorale Gaudium et spes 5, e cioè dall’ormai obbligato “passaggio da una concezione piuttosto statica dell’ordine a una concezione più dinamica ed evolutiva”, don Carlo, che era notoriamente un entusiasta seguace di p. Pierre Teilhard de Chardin, presentava un cammino di maturazione della fede e spiritualità secondo l’evoluzione della storia. Certo, quando parlava di evoluzione, faceva drizzare le antenne della nostra attenzione, ma riusciva anche a mostrarne la necessità per un’autentica comprensione della fede.
Era un insegnante aperto alle domande e disponibile anche alle critiche dei partecipanti che, essendo di età diverse e di varie provenienze e formazione, avevano sempre domande supplementari di spiegazione e approfondimento da porre all’oratore. Ma don Carlo era paziente soprattutto quando si rendeva conto che le sue nuove idee erano difficili da comprendere e pazientemente spiegava e rispiegava. Riusciva così a far comprendere agli ascoltatori la nuova impostazione dei dogmi e della morale, aprendo nuovi orizzonti che affascinavano l’uditorio, anche i cervelli un po’ arrugginiti dei missionari non più abituati alla speculazione teologica. E molti di loro, appena si rendevano conto della ricchezza e fecondità delle nuove prospettive, cercavano di accostare don Carlo per un colloquio personale che spesso trasformava il teologo in un accompagnatore spirituale.
Quello che convinceva in don Carlo era l’insieme di profondità teologica e grande umanità, di prestigio intellettuale e prossimità spirituale. Era proprio quello di cui c’era bisogno. Ricordo confratelli che da anni avevano abbandonato i libri di teologia chiedere a don Carlo indicazioni per organizzarsi un’essenziale biblioteca da portare con sé in missione. Egli realizzava il principio ispiratore della sua settimana che cioè “la maturità di una persona consiste nell’armonia di tutte le sue componenti vitali, nel far confluire cioè tutte le dinamiche personali in un progetto unitario, dove la crescita umana e la maturità umana coinvolga tutte le dimensioni delle persone consacrate: fisica, biologica, psichica, spirituale, carismatica ed ecclesiale in uno sviluppo autonomo, ma interdipendente”. Nelle sue lezioni entravano sempre anche i problemi tipici della nostra vita missionaria, la vita come testimonianza evangelica, il dialogo con le culture e le religioni e preziose indicazioni sul valore teologico delle religioni non cristiane.
Al corso dei “Tremesi” annuali, don Carlo veniva molto volentieri, anzi assicurava da un anno all’altro la sua presenza. E siccome si sapeva che era carico di richieste di conferenze, sessioni e esercizi spirituali noi lo prenotavamo sempre in anticipo. Era quindi un ospite fisso della nostra comunità, piacevole commensale e – dopo i pasti – compagno di conversazioni che spaziavano dagli argomenti ecclesiastici a quelli politici e internazionali. Era un maestro molto ascoltato.
La notizia della sua morte ha risvegliato in me, tra gli altri, anche un altro sentimento che, se la parola non fosse troppo forte, chiamerei di colpa. Perché dopo una decina d’anni non potemmo più averlo come insegnante al Corso. Cos’era successo? Era successo che ogni anno c’erano dei confratelli fuori del Corso che con sempre più insistenza insinuavano che don Carlo aveva tenuto in passato delle dottrine non del tutto ortodosse, soprattutto in cristologia. Erano confratelli che non erano mai entrati nella logica del Concilio di Caledonia, confratelli che – è triste dirlo – non avevano più seguito l’evoluzione della teologia e in particolare della cristologia e che rimanevano impressionati da certe affermazioni, oggi scontate, che a loro sembravano oscurare la natura divina di Gesù.
Queste voci arrivavano anche a lui che non reagiva. Ma al sottoscritto questo chiacchiericcio non piaceva e tuttavia non c’era modo di discutere serenamente con questi critici, anzi spesso si giungeva alla polemica. Io personalmente devo battermi il petto per non aver avuto il coraggio di resistere loro in fronte e… così si concluse la collaborazione preziosa di don Carlo. Cercai di spiegarmi con don Carlo, che era troppo intelligente per insistere, tanto più che, come si sapeva, era pieno di altre richieste. So che questa conclusione lo fece soffrire e fu per noi una perdita che a me dispiacque immensamente. Credo che ora don Carlo avrà modo di capire le ragioni di quella decisione e che continuerà comunque a volerci bene come ha sempre fatto.