Quinta Domenica di Pasqua – Anno B (2 maggio 2021)
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Lett: At 9, 26-31; 1 Gv 3, 18-24; Gv 15, 1-8
Per descrivere la relazione tra il Padre, il Figlio e ciascuno di noi, il Signore Gesù usa un’immagine, la parabola della vite e dell’agricoltore. La vite è Gesù e noi siamo i tralci che portano frutto o sono sterili. E poi c’è l’agricoltore, il Padre, che controlla ogni tralcio per vedere se porta frutto o no. Lo pota perché porti più frutto, o poi lo taglia se è secco e lo getta via per essere bruciato. Per ogni vignaiolo, e questo vale anche per il Padre, ci dice Gesù, ciò che importa è il frutto. Non è l’aspetto, né il lavoro o i sacrifici necessari che sono importanti. Per il Padre, ciò che importa è il frutto.
Ma perché il frutto possa crescere e dare il meglio, il tralcio deve rimanere attaccato alla vite, ci ricorda Gesù. Da solo, il tralcio non dà niente. Se il tralcio è separato dalla vite, muore e diventa secco, e non può più portare frutto. Diventa sterile e secco, e poi viene bruciato. Ma non basta rimanere unito alla vite, ci dice anche Gesù. Il tralcio non deve crescere in modo disordinato, non cresce per se stesso. Ha bisogno di essere potato, tagliato, per dare frutto. Se il vignaiolo lascia crescere il tralcio senza potarlo, il frutto diventa piccolo e senza gusto. Perde in qualità! Questa è la logica della realtà concreta della campagna, ma è anche la logica della vita spirituale.
Dunque, ci sono due condizioni essenziali della vita spirituale, della vita di fede: rimanere sulla vite, che è Gesù, e poi lasciarsi potare dalla parola di Dio e dalla provvidenza di Dio. Per questo, il Signore conclude: “se rimanete in me e le parole mie rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”. Perché la “gloria del Padre”, non consiste nel tagliare, ma nel fatto che portiamo “molto frutto” e che diventiamo “discepoli” di Gesù. Portare frutto e diventare discepolo sono sinonimi.
A questo punto, ci viene la domanda: ma che cosa significa portare frutto? Per la vite, è facile capire ciò che significa. Ma per noi, per il discepolo, cosa significa? Qual è il frutto che aspetta il padrone della vite spirituale? Subito, vengono alla nostra mente due possibilità. La prima considera il numero, la forza, la potenza della Chiesa. Pensiamo alle vocazioni, all’influsso del cristianesimo nella società, al numero di persone nelle chiese. Ma questa non è la prospettiva che interessa il Signore, ci dice la liturgia di questo giorno.
Difatti, senza escludere questa prima risposta, la seconda lettura sceglie un’ altra visione. Per Giovanni, nella sua prima lettera, rimanere in Dio, rimanere uniti alla vite, significa osservare il comandamento: cioè credere nel nome del Figlio e amarci gli uni gli altri. Credere e amare, sono, per Giovanni, due aspetti della stessa realtà. L’amore cristiano non è sentimentalismo ma fede nella presenza del Signore nel fratello. La fede cristiana non significa recitare formule, ma chiede soprattutto l’amore che trasforma il cuore di chi crede. Per il cristiano non c’è fede vera senza amore, certo un amore spesso difficile e arido. Ma non c’è amore vero senza fede, cioè senza consapevolezza della presenza del mistero di Dio nell’altro. Lo diceva San Giovanni della Croce alla fine della sua vita: “saremo giudicati sull’amore”!
Dom Guillaume – cappellano Monastero cistercense di N.S. di Valserena (Pisa)
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