Domenica II dopo Pasqua anno B (11 aprile 2021)
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Lett.: At 4,32-35; 1Gv 5,1-6; Gv 20 19-31
Spesso si dice, e si legge, che il vangelo di Giovanni è il vangelo più spirituale, più contemplativo, più mistico tra i quattro vangeli. Però, il brano che abbiamo appena ascoltato colpisce, piuttosto, per il suo carattere molto concreto, molto incarnato: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”, dice difatti Tommaso, uno degli apostoli. A lui non bastano i racconti delle apparizioni, la testimonianza delle pie donne o dei suoi compagni, tra cui Pietro. E vuole non solo vedere, ma anche toccare e verificare. La sua richiesta riveste una dimensione molto attuale, molto moderna. In un certo senso, Tommaso chiede ciò che tanti dei nostri contemporanei aspettano. Non credono più nei discorsi, nelle formule, nelle testimonianze. Vogliono vedere e toccare.
Ognuno desidera ormai essere protagonista della Risurrezione, non solo un testimone tra altri testimoni nella catena dei testimoni. La schiera dei discendenti di Tommaso è diventata molto numerosa, innumerevole oggi. Siamo oggi in un cultura che vuole assolutamente sperimentare per poter credere, una cultura in cui non ci si può più fidare alle parole, perché abbiamo fatto l’esperienza della vanità e del vuoto dei discorsi. La menzogna ha così invaso ogni realtà umana che siamo obbligati di verificare e di toccare per poter credere. Tommaso faceva già parte di questa generazione che non può più fidarsi di niente e di nessuno. È una generazione infelice, perché deve rifare il cammino e verificare ogni affermazione. Ha perso la fiducia nei testimoni, e così la fede diventa molto più difficile. Invece, “beati quelli che non hanno visto”, ci dice il Signore!
Ciò che ci rivela dunque questo brano del vangelo di Giovanni, non è tanto il problema di un discepolo che non si fida dei suoi compagni, ma è la sofferenza delle generazioni che oggi non possono fidarsi della parola degli altri. Questa diffidenza, di cui Tommaso è il testimone, non è solo di uno tra undici, ma è diventata oggi di tantissimi. Non è più un caso isolato, è la situazione normale dei nostri tempi. La fede è diventata difficile perché la fiducia è vanificata. La nostra società si costruisce sul sospetto, sul dubbio continuo, sulla radicale incertezza che impedisce di credere a nessuno e a niente! Sant’Agostino insisteva nel suo De Fide sull’importanza di questa fiducia fondamentale per poter annunciare la fede.
La fede non è la fiducia, però la fede suppone una capacità di fidarsi, cioè di trovare pace e serenità nei nostri rapporti umani. Il tradimento, la falsa testimonianza, la parola falsa o cattiva distruggono pian piano questa fiducia primitiva nella vita, che riceviamo alla nostra nascita. Per questo motivo, il diavolo aveva seminato la diffidenza nel cuore di Adamo e Eva nell’Eden, mettendo in dubbio la parola di Dio. E dopo aver istillato la diffidenza, aveva suggerito loro di nascondersi da Dio nel giardino. La fede richiede da parte nostra questo lavoro di non cedere alla paura dell’infedeltà, alla diffidenza, alla menzogna. Però, per ritrovare la fiducia, abbiamo bisogno della carità, perché la carità “tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”.
Dom Guillaume, cappellano Monastero Cistercense N.S. Valserena (Pisa)
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