Domenica 27esima del Tempo Ordinario – anno C (6 ottobre)
Letture: Ab 1, 2-3. 2 , 2-4; 2Tim 1, 6-8. 13-14 ; Lc 17, 5-10
Man man che cresce la loro intimità con Gesù, i discepoli sembrano scoprirsi sotto una luce nuova. Fin dall’inizio avevano lasciato tutto per seguirlo, pronti ad affrontare tutti i pericoli, ed ecco che di colpo si ritrovano poveri e sprovvisti. In modo paradossale, la presenza così vicina di Gesù fa nascere in loro il dubbio, l’incertezza e li spinge a gridare: «Accresci la nostra fede».
E così, lungi dal confortare quelli che lo seguono in una sicurezza piena di superbia, Gesù cerca invece di spogliarli di ogni traccia di fanatismo, di ogni sentimento orgoglioso di superiorità. E così, chi desidera accostarsi a Gesù, fare l’esperienza della sua intimità, comincia sempre con l’essere rinviato ai propri limiti, alla propria povertà. È sufficiente uno sguardo di Gesù per mandare in pezzi la bella immagine che portiamo di noi stessi.
È perché hanno incontrato Gesù, perché hanno fatto esperienza del suo sorprendente rapporto con il Padre, che i discepoli si sono resi conto che la loro fede era ben lontana da quella di Gesù. In effetti, la loro fede era così piccola che non raggiungeva nemmeno la dimensione di un granello di senape! Solo allora, vedendolo pregare la notte, hanno compreso di non sapere nulla della preghiera autentica e hanno sentito il desiderio di imparare a pregare. A contatto con lui, vedendolo così vicino agli uomini, hanno sperimentato di non sapere nulla dell’amore.
Il primo frutto di un’intimità vera con Gesù può dunque sembrare ben amaro, perché ci fa prendere coscienza della debolezza della nostra fede. E potremmo essere tentati di fuggire, per salvare l’immagine che avevamo di noi stessi, se Gesù non venisse in nostro aiuto.
Ma esiste anche un’altra tentazione, ben più sottile, che è in agguato, e contro la quale Gesù stesso ci mette in guardia. In effetti, per sottrarci a questa fragilità che è la nostra, a quel poco di fede che ci abita, come i discepoli potremmo avere la tentazione di vantarci di quello che abbiamo fatto, di quello che abbiamo lasciato per lui, facendo nostre le parole dell’apostolo Pietro: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?».
E forse è solo dopo aver percorso la lunga strada che va da Betania a Gerusalemme, e dal monte degli Ulivi al Golgota, che potremo anche noi, a nostra volta, sperimentare queste parole di Gesù: «Dite a voi stessi: Siamo servi inutili!».
Per i primi discepoli come per tutti quelli che, nel corso dei secoli, si metteranno a seguire Gesù, e anche per noi, l’esperienza di una vera intimità con il Figlio passerà sempre per la scoperta della nostra fragilità personale. Perché è lì, al cuore stesso della nostra debolezza, che si dispiega la forza di Dio.
Agli antipodi di tutti i fanatismi religiosi che pretendono di appropriarsi della fede, agli antipodi di tutti i settarismi accecati dall’odio che ritengono di poter costruire il regno di Dio su questa terra, il Vangelo ci ricorda che la salvezza è un dono di Dio. Di fronte a tutte le ideologie del terrore, allo scatenarsi di violenza e discordia che scuotono il nostro mondo, di fronte a tutti quelli che pretendono di far piegare la libertà dell’uomo, il Vangelo non cessa di proclamare, fino alla fine dei tempi, che solo l’amore salva, perché è più forte della morte.
Dom Guillaume trappista, cappellano Monastero Cistercense Valserena (Pisa)
(www.valserena.it)