di Gianfranco Murtas
Io c’ero, cinquant’anni fa! nella chiesa cagliaritana, antica e bellissima, di San Lucifero, con quel presbiterio rialzato come nella cattedrale di Santa Maria, qui a protezione della più remota area di preghiera e liturgia. L’arcivescovo Paolo Botto ordinò otto giovani diaconi, la mattina di domenica 14 luglio 1968. Stava già male il presule, a Cagliari allora da diciannove anni; un infarto, assorbito come fu possibile, lo avrebbe obbligato a rinunciare alla diocesi alcuni mesi più tardi, e nell’autunno 1969 sarebbe arrivato a guidare la chiesa locale, direttamente dai quadri della diplomazia vaticana e con molte esperienze internazionali, il cardinale Sebastiano Baggio. E l’anno successivo ancora sarebbe venuto da noi, in visita religiosa il 24 aprile, il papa Paolo VI, che avrebbe onorato, con centomila anime, la Madonna di Bonaria e avrebbe poi visitato il quartiere di Sant’Elia. Questo il quadro temporale in cui collocare le ordinazioni officiate da monsignore, a neppure tre anni dalla chiusura del Concilio Ecumenico che tanto aveva influenzato gli ultimi anni di preparazione teologica nel seminario regionale di Cuglieri.
Erano tutti giovani i don candidati al ministero presbiterale e venivano dalle più diverse parrocchie della città e della provincia: Paolo Alamanni e Francesco Frau, Giovanni Battista Melis e Giuseppe Pes, Antonio Pisano e Gesuino Prost, Efisio Zara e anche lui, Ettore Cannavera, amico fra quelli che di più ha inciso nella mia vita: al pari, che so, per restare nell’ambiente, di Angelo Pittau, mistico e poeta non meno che uomo del fare, seminatore e mietitore di Villacidro.
Celebro lui, Ettore Cannavera, oggi, nella consapevolezza che il suo nome resterà, come quello di altri – metti come quello dello stesso don Pittau, o di padre Morittu, con meriti evidenti ma forse neppure superiori a quelli di altri con minor ribalta nell’isola nostra – nelle tavole della storia sociale della Sardegna del Novecento e di questo scampolo di terzo millennio.
Le attività sociali di don Cannavera, certo professionali – dello psicologo, del pedagogista, del sociologo – sono essenzialmente mosse e tutte intrise, lo si tenga sempre presente, di spirito evangelico, senza declamazioni oratorie e invece segnate da un bisogno di testimonianza e di missione soddisfatto nel concreto. Egli muove dal suo Vangelo che ne ispira il pensiero critico e innovatore ed ispira, di conseguenza, una pratica spontaneamente solidale. Se non fosse un’immagine abusata a lui, al don, si potrebbe riferire l’icona che fu dei migliori del cattolicesimo italiano del Novecento: il Vangelo (e il Concilio) in una mano, la Costituzione repubblicana nell’altra. (Ho scritto “cattolicesimo” non “clericalismo”, ho scritto “Vangelo” non “Codex”).
La sua missione sociale si è sviluppata e ancora si esprime secondo queste coordinate, che sono l’orgoglio morale e civile anche dei molti che con lui hanno collaborato, nelle opere e nei tempi e modi più diversi, per il bene della nostra terra, della nostra gente, sognando una società perfettamente inclusiva.
Per questo, riconoscendolo prete di Partenia fin dall’avvio del suo sacerdozio (il più declericizzato che sia possibile immaginare), accostarne anche in questa occasione giubilare il nome alle feconde e note fatiche della sua pedagogia sociale è quanto di meglio mi sia riuscito di compiere per confermare a lui, pubblicamente, una intensa prossimità.
Già nel terzo tomo della trilogia di Partenia in Callari, sono ormai passati già vent’anni! gli indirizzai una lettera che qui appresso mi pare giusto recuperare e rilanciargli, nuovamente firmandola.
Ettore carissimo,
una volta un tale, poco avvezzo alle cose di chiesa, benché andasse a messa quasi tutte le sante domeniche e votasse democristiano e qualche volta missino (per convertirsi di recente ad alleanza nazionale o forza italia), mi rivelò che tu eri un prete a metà e strambo, magari un po’ ateo e comunque uno di sinistra, più sociologo che confessore, vestito civile senza collarino, ecc. ecc. Sì, egli ignorava la differenza fra il Battista e l’Evangelista – trattandosi di omonimi –, ma riteneva di possedere comunque elementi bastevoli per emettere la sua sentenza circa l’altrui ortodossia ed ortoprassi.
Poi mi capitò sulla strada un altro, tutto sussiego nel suo ruolo baronale, il quale aveva addirittura messo nero su bianco che l’ostia era troppo onore per te, che esprimevi le tue idee – in verità affidandole con qualche ingenuità a giornalisti sensibili più allo strillo che all’analisi, i quali te le avevano distorte –, dicevo che era troppo onore per te dire messa, perché troppo radicale nella lettura evangelica e poco umile verso i commi del codice di diritto canonico.
Cosa è la spiritualità per uno come te? Come è che realizzi il tuo sacerdozio cattolico da quando hai rinunciato alla parrocchia e hai iniziato ad impegnare la massima parte del tuo tempo a scuola, fra i tuoi allievi cui spieghi Aristotele e Kant, Hegel e Popper o, nell’alternanza degli anni, le teorie dell’inconscio di Freud o di Jung, il superIo e l’Es? E magari ti sei messo a fondare cooperative sociali e comunità o case-famiglia una volta per minori senza famiglia, un’altra per adolescenti sanzionati dal giudice, un’altra ancora per giovani adulti destinati – ma, chissà perché, refrattari – a una bella cella condivisa con altri otto a Buoncammino? Oltre tutto senza bussare a cassa da nessuno ma soltanto utilizzando il laico erga omnes delle leggi ed il contributo di chi condivide esistenzialmente il progetto…
Che prete sei quando, come un domestico, porti la spesa a Paoletto, il tuo figlioccio tutto piazza e carcere, quartiere e tribunale, finito poi in ospedale per morire, e ti trattieni fino all’exit con lui, invece di recitare il breviario? Che prete sei quando ti metti con uno scomunicato ed accetti di andare a confessare a casa mia, come ti chiedo, una volta F. ed un’altra M., che sono toccati dalla malattia e chiedono il prete per essere aiutati a mettere ordine fra sensi di colpa, emozioni transeunti e conquiste valoriali? Che prete sei quando ti metti a dire messa, all’IPM di Quartucciu, ed accetti che i ragazzi te la interrompano almeno cento volte, nel bel mezzo della spiegazione delle letture o dell’offertorio, del prefazio e dei riti di comunione? In televisione (insieme abbiamo anticipato molti in tv, ti ricordi del 1981 quando fummo censurati da NuovOrientamenti?), da poco hai perfino azzardato che «Gesù Cristo non ha fondato nessuna chiesa», riferendoti evidentemente alla struttura giuridica clericale come la storia l’ha invece definita, tanto spesso sostituendola a quelle povere cose che erano il sale e il lievito…
Ma quando t’ho incontrato, hai cucinato tu quel che ho consumato io, ed hai ripulito tu i fornelli, e quando sono tornato non t’ho trovato a casa né la prima né la seconda volta perché eri rintanato, seduto-inginocchiato al modo dei Piccoli Fratelli, nella cappelletta della chiesa di Santa Margherita, come continui a fare ora alla “Collina”.
Strano prete, caro Ettore. E comunque io ti ammiro. Né debbo chiedere, e non chiedo infatti, l’autorizzazione a nessuno.