Gloria e abbassamento: due termini opposti in chiave umana, uniti indissolubilmente nella logica del Regno
V domenica di Quaresima – Anno B (18 marzo 2018) Letture: Ger 31,31-34 ; Eb 5,7-9 ; Gv 12,20-33
Nella storia di Gesù, nei vangeli, si sente tre volte la voce del Padre. La prima volta, nei sinottici, succede dopo il Battesimo: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (Mt 3, 17).
Poi, una seconda volta nel racconto della Trasfigurazione, risuona di nuovo la stessa parola del Padre (Mt 17, 5). Ma la terza volta, la troviamo in questo brano del vangelo di Giovanni, prima della passione: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora» (Gv 12,28). La voce del Padre si fa sentire dagli uomini quando Gesù, dopo esser sceso nell’acqua del fiume Giordano, risale sulla terra ferma. Si fa sentire di nuovo dai discepoli scesi con lui sulla montagna della Trasfigurazione, e prima della sua discesa verso Gerusalemme. E infine in questo brano del vangelo, prima che Gesù sia umiliato nella passione e innalzato sulla croce.
Con questi movimenti di salita e di discesa, e con queste parole venute dal cielo, i vangeli vogliono insegnare qualcosa di molto importante, soprattutto per noi.
Difatti, Gesù risponde a quelli che dubitano di aver sentito qualcosa: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi», cioè anche per noi. Ogni volta che succede qualcosa di importante nella storia di Gesù, si manifesta la presenza del Padre.
Quando egli scende nell’acqua per essere battezzato da Giovanni, e prende su di sé la nostra umanità ferita dal peccato e dalla morte.
Quando egli lascia vedere ad alcuni discepoli sulla montagna della Trasfigurazione la sua vera identità divina di Figlio di Dio.
Quando sceglie di affrontare la nostra sofferenza e la nostra morte. Tra l’abbassamento e la gloria esiste dunque un legame, ma un legame molto difficile da capire per i discepoli e soprattutto per noi.
Per noi, gloria e abbassamento sono due termini opposti. Per noi, la gloria significa essere sopra gli altri, e l’abbassamento suppone sempre la perdita della gloria.
Invece, per Gesù, non è così.
Perché la gloria ha un altro significato, molto più biblico, molto più profondo. Nell’Antico Testamento, la gloria di un uomo significa il suo peso, la sua importanza, cioè la sua vera identità.
Poiché Gesù riceve solo dal Padre la sua vera identità: «Sei il mio figlio», egli può perdere tutto senza perdere se stesso. E quando è glorificato sulla montagna, o quando è onorato e ammirato, non si lascia ingannare dalla gloria umana. Non si perde nello sguardo degli altri.
Questo modo di esistere da parte di Gesù è per noi un mistero e una sfida. Un mistero perché facciamo tutti l’esperienza che la nostra identità è molto fragile. Ci sentiamo molto deboli quando dobbiamo affrontare lo sguardo negativo o il giudizio dell’altro, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche molto bene che ci lasciamo facilmente ingannare quando tutto va bene, prigionieri dal successo o dalla fama.
Nell’umiliazione o nella gloria, facciamo l’esperienza della nostra povertà interiore, della nostra fragilità. Ma solo così possiamo anche capire che abbiamo bisogno di essere salvati.
Nel confronto con l’umanità del Signore, sperimentiamo certo la nostra povertà, ma scopriamo anche la nostra vocazione. Perché anche noi siamo chiamati a diventare figli, a sentire un giorno la voce del Padre Suo, che è anche il Padre Nostro!
Dom Guillaume trappista, cappellano Monastero Cistercense Valserena
(www.valserena.it)