Solo chi sa di essere ascoltato è capace di gridare
I domenica d’Avvento – Anno B (3 dicembre 2017) Letture: Is 63, 16-17. 19; 1 Cor 1, 3-9; Mc 13, 33-37
«Perché?»
Il dito accusatore del profeta Isaia sembrava puntato verso il cielo, sfidando Dio a venire a spiegarsi, a squarciare i cieli per venire a giustificarsi. Proclamava con forza: «Siccome sostieni di essere “nostro Padre e nostro Redentore”, perché ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?» Perché? Eppure tu vedi bene che noi “siamo tutti avvizziti come foglie morte” strappate dal vento dei nostri peccati.
Per far sgorgare questo grido dal più profondo delle viscere del profeta, c’era stato bisogno di un grande accumulo di peccati, di un’infinita miseria del popolo umiliato, e infine della rovina di Gerusalemme, la città santa. La libertà dell’uomo – che si era preso gioco del suo Dio fino a erigere nel suo stesso tempio altari alle divinità straniere – non aveva fatto che condurre a un vicolo cieco e al vuoto. Lasciata a se stessa, questa libertà dell’uomo, così preziosa agli occhi di Dio, si era trasformata in schiavitù.
Ma a inquietare il profeta era il fatto che Dio non aveva fatto nulla per trattenerci, per costringerci a seguirlo, ad amarlo. Siccome noi lo avevamo abbandonato innumerevoli volte, Dio ci ha forse lasciato perdere? Ha forse preso la decisione di lasciarci andare per la nostra strada? Siamo forse diventati orfani?
Questo grido del profeta è molto spesso il nostro! Da ormai duemila anni egli viene, ci dicono che è venuto, proclamiamo che ritornerà. E il mondo sembra continuare imperturbabile il suo gioco al massacro e alla guerra, come se nulla fosse successo. E la Chiesa grida sui tetti, fino allo sfinimento, questa verità che sembra non interessare più a nessuno! E gli uomini assomigliano a quelle foglie morte, spazzate via dal vento, senza radici e senza fede.
Sì, questo grido del profeta può essere proprio il nostro. Anzi, dobbiamo proprio farlo nostro. Perché solo chi sa di essere ascoltato è capace di gridare. Solo ti attende che i cieli si squarcino è capace di gridare, come la sentinella che attende l’aurora.
Ma noi siamo capaci di vegliare come servi di cui parla il Vangelo, assomiglianza del profeta Isaia? Siamo tra coloro che attendono alla porta, che prestano attenzione al più piccolo rumore e il cui cuore sussulta al più piccolo soffio dello Spirito? Siamo tra quelli siamo tra quei fedeli di cui parla Paolo (cfr. 1Cor 1,3-9) nei quali «la testimonianza di Cristo è stabilita saldamente?»
Siamo tra coloro la cui esistenza interna proclama che Dio è fedele, perché viviamo già delle ricchezze che egli ci dona, «tutte quelle della parola e della conoscenza di Dio?» Siamo tra quegli uomini la cui intera esistenza annuncia, come il profeta Isaia: «Tu sei disceso?»
Perché, questa fedeltà di Dio, questo squarciarsi dei cieli che celebriamo a Natale, nella nascita del Figlio di Dio in questo mondo, è anche nella nostra vita che si manifesta già, ora.
Un’orazione della Messa comincia con questa formula un po’ strana, di primo acchito: «Accordarci, Signore, di trovare la nostra gioia nella nostra fedeltà». Ma la nostra fedeltà che altro è se non la nostra attesa serena che trova la sua radice nella fedeltà di Dio, perché «Dio è fedele»?
Dom Guillaume trappista, cappellano Monastero Cistercense Valserena
(www.valserena.it)