Scrissi questo articolo tre mesi fa, nell’attesa e nella speranza che la Cassazione respingesse la richiesta di archiviazione del fascicolo giudiziario relativo alle indagini sull’assassinio – tale l’ho sempre ritenuto – di don Tonio Pittau, parroco della cattedrale di Cagliari,
avvenuto nel dicembre del 1988. Tenni infine per me, chiuso nel computer, il file, decidendo di rinviarne la pubblicazione a dopo la pronuncia della suprema magistratura, che infatti è venuta a soddisfare, ora sono pochi giorni, l’intimo bisogno dei giusti. Ciò che, evidentemente, ancora non risolve il caso, e non rende giustizia alla vittima e a chi ha patito quel lutto.
Io so che, all’indomani di quella scomparsa fisica, inaspettata anche se – a ripensarne i segni premonitori allora non colti – già minacciata, e poi del rinvenimento del corpo offeso del sacerdote in un burrone di campagna, circolarono voci grevi e incontrollate, indubitabilmente fuori direzione e impudenti o disonoranti una memoria invece nobile sotto tutti i profili. Un modo facile per rovesciare, come in un romanzo da strapazzo, le cause e gli effetti, per capovolgere le responsabilità, per oscurare le colpe di qualcuno ed i meriti di altri sulla scena, per più aspetti sgradevole, della cattedrale di Cagliari nei tardi anni ’80 (e forse anche dopo).
Ma io mi schiero: con la personalità pura di don Tonio Pittau, convinto e conquistato dal suo privato, dalle sue carte confidenziali, dalle sue amicizie, dalla linearità di un ministero faticoso ed insieme esemplare, sempre sotto gli occhi di tutti.
Valga dunque anche questo articolo come attestato di omaggio alla sua memoria e di solidarietà alla famiglia ed a quanti hanno condiviso tanta sofferenza prolungata ora sono quasi tre decenni.
Tracce di una formazione religiosa
Alcuni giorni fa, giovedì 15 settembre per la precisione, da lui invitato, sono accorso ad un urgente e fraterno consulto – così meriterebbe chiamarlo, senza pompa ma per la verità della cosa – con don Dino Pittau, già parroco della cattedrale di Cagliari, presbitero samassese di solida esperienza pastorale, nei sessantuno anni di sacerdozio maturati lungo i passaggi dalle parrocchie di Sant’Anna (anni ’50, quelli ancora dell’indimenticato e mitico monsignor Mario Piu, per mezzo secolo leader religioso a Stampace, e nel momento delle consegne a monsignor Pasquale Sollai) e San Biagio di Sicci (Dolianova), di Nostra Signora delle Grazie e San Pietro apostolo, rispettivamente a Sanluri e Monastir, e dopo ancora, per altri otto anni, di Sant’Avendrace vescovo, nel capoluogo. Fino, appunto, a Santa Cecilia nella cattedrale dal 1998 al 2008. Voleva, don Dino, un confronto di idee, in associazione alla convergenza dei sentimenti – l’idem sentire! – circa una qualificazione della morte, orrenda oltreché dolorosa, dolorosissima, di suo fratello don Tonio, intervenuta nell’antivigilia di Natale del 1988. Martire della fede… martire del ministero. Nella etimologia greca martire vale per testimone, testimone della fede… testimone del suo ministero di presbitero, di anziano della comunità, di delegato del vescovo in un territorio particolare per la cura animarum, direi per la cura dell’uomo integrale nell’affiancamento, nella guida, sempre nel servizio e nell’esempio, appunto nella testimonianza.
Cercava, don Dino, di riordinare i supporti fattuali e documentali di questa perorazione da indirizzare a chi?, perorazione che gli saliva dall’intimo del cuore per una causa di pura giustizia, non certo per il bisogno di affiancarsi in vetrina, per la fraternità del sangue, ad un virtuoso, ad un santo. Quelli fattuali li trovava facilmente, come facilmente li abbiamo trovati e comunicati in diversi, in tutti i modi per lunghi anni. Anche io per la mia parte (perfino scrivendone a Benedetto XVI e ricevendo però risposta banale dal nunzio apostolico del tempo, oggi cardinale, Bertello). Quelli documentali li trovava nel diario personale di don Tonio, un diario molto spirituale ma non privo, all’occorrenza, di cenni alla cronaca, alla vicenda vissuta direttamente, da protagonista. E il centro di tutto era nella insistenza e nella motivazione che, nella tarda estate del 1986, l’arcivescovo Giovanni Canestri – il quale lo aveva insediato parroco a Sant’Avendrace appena un anno prima, esattamente il 29 settembre 1985 – gli adduceva per il nuovo trasferimento, che gli chiedeva di accettare, alla parrocchia della primaziale. Perché in quella insistenza e in quella motivazione erano contenuti tutti i rischi che il presule, implicitamente, chiedeva al suo prete di assumere con piena consapevolezza.
Al rifiuto, chiaro, rispettoso e gentile, che don Tonio gli aveva opposto giorni prima, in occasione di un primo incontro sull’argomento – un rifiuto motivato dalla necessità di non abbandonare una comunità, appunto quella di Sant’Avendrace, alla quale era stato mandato da così breve tempo e con la quale si era da subito acceso un rapporto empatico, suscettivo di mille fecondi sviluppi –, l’arcivescovo, in questo secondo e decisivo incontro, rafforzava i toni chiedendogli, in nome della Chiesa, l’obbedienza trattandosi di una missione non ordinaria ma speciale: bonificare l’ambiente della cattedrale da perniciose situazioni. Quali? Evidente, in primo luogo, lo strascico, variamente definibile, del furto avvenuto, certamente su commissione, all’interno del Tesoro del duomo in una malefica notte d’inizio giugno del 1985: quell’ostensorio del XVIII secolo, dal valore così alto (non soltanto per i 1.500 diamanti e i metalli impiegati, ma per la stessa straordinaria confezione artigianale) da non essere stimabile, una brocca d’argento con il gran piatto (mezzo metro di diametro!) attribuito alla scuola del Cellini. Di tanto sarebbe stata un minuziosa descrizione riservata, dallo stesso don Tonio Pittau, nel fatidico, anzi nel fatale 1988, alle pagine della nuova guida della cattedrale da lui curata, con prefazione di Paolo De Magistris. Ma poi?
Poi anche quel tanto di non esplicitato ma chiaramente arguibile: l’infestione di licenziosità pagana che nulla ovviamente poteva avere di compatibile né con la sacralità del luogo né con la fragilità umana contro cui combattono ogni giorno una coscienza retta e un cuore umile. Quelli che hanno, anzi sono, coscienza retta e cuore umile.
A quel momento, don Tonio, pur giovane, aveva vissuto un’infinità di esperienze di studio e di lavoro. Ordinato presbitero dall’arcivescovo Paolo Botto, nella basilica di Bonaria, il 1° luglio 1962, giusto cento giorni prima della apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II convocato da Giovanni XXIII, la prima consegna da lui ricevuta era stata quella dell’insegnamento di lettere nel nuovissimo seminario sorto sulle pendici del colle San Michele. Così per due anni. Poi, per altri quattro, fino al 1968, era stato assegnato come viceparroco nella chiesa madre di San Vito. E per altri due, fino al 1970, ancora come vicario a Sant’Ambrogio di Monserrato, comunità storica e prestigiosa dell’hinterland cagliaritano.
Nel 1970 il cardinale Sebastiano Baggio, succeduto a monsignor Botto, lo aveva mandato a specializzarsi in teologia pastorale a Bruxelles, all’Istituto Lumen vitae affiliato all’università di Lovanio. Per due anni egli aveva accompagnato a quell’impegno l’assistenza spirituale, con altri confratelli, agli emigrati italiani – una colonia di 200mila persone – in Belgio, su cui puntualmente riferiva per iscritto al suo arcivescovo. Nel 1972 aveva discusso la tesi dal titolo “Per un pluralismo comunitario ecclesiale”, ottenendo anche una nota di distinzione. Aveva intanto avviato istruttive escursioni pastorali a Parigi e Lione, a Londra e Madrid, a Torino e Milano e Roma…
Lo studio e le esperienze in un così largo raggio geografico ne avevano allargato la visuale, insaporendo quel potenziale pedagogico che intendeva tradurre in opere rientrando in Sardegna. E infatti, rimpatriato, gli erano stati affidati diversi uffici, fra i quali eccellente fu quello di assistente diocesano dell’Azione cattolica settore giovani. Così fino al 1976, mentre nel triennio successivo il mandato si era fatto regionale. Dal nuovo arcivescovo Giuseppe Bonfiglioli era stato quindi nominato viceparroco a Sant’Avendrace, qui trovando l’humus più favorevole per lavorare nella formazione dei giovani, fondando il gruppo scout Cagliari 5, ecc.
Nel 1977 s’era laureato in teologia nella facoltà retta dai padri gesuiti nel capoluogo, discutendo la tesi (poi pubblicata in volume) “La questione giovanile e la Chiesa” (in bibliografia ben 280 titoli!). Nel febbraio 1979 finalmente era stato promosso parroco a San Giuseppe di Pirri, e qui era rimasto per sette anni, ancora seminando fiducia, intelligenza, amicizia, sapientemente sviluppando tutto quanto aveva ricevuto dai predecessori don Salvatore Casu (il fondatore) e don Paolo Pinna. Al parrocato gli erano stati associati, nel tempo, altri incarichi: quello di assistente diocesano della FUCI (sino al 1981), quello di delegato vescovile per il Diaconato permanente (dal 1981), quello di docente di pastorale nella facoltà teologica della Sardegna (dal 1984, svolti tre corsi: “La questione giovanile e la Chiesa”, “Teologia e pastorale della comunità”, “Comunione e comunità”).
Era quindi venuto il tempo di un ritorno a Sant’Avendrace, successore del vivacissimo don Andrea Cocco, prete sociale per eccellenza. Era stato un ritorno gioioso, felice anzi, per il ritrovare in fraternità quelli che aveva dovuto lasciare anni addietro e con essi subito s’era messo all’opera avviando il censimento della popolazione del quartiere, tutti volendo egli raggiungere. «Un anno magnifico», avrebbe annotato nel suo diario, per fotografare il consuntivo che avvertiva così anticipato nel tempo, ma obbligato da ragioni superiori.
Flashback: i fratelli Pittau e la loro formazione
È bello parlare di don Tonio, che purtroppo io ho conosciuto, negli anni ’80, soltanto di striscio, nelle frequentazioni del duomo, tanto spesso con Paolo De Magistris. E suo fratello don Dino, il grande di casa, ha fatto bene, nel primo decennale della morte, ad onorarlo con un volume – “Don Tonio Pittau sacerdote per la comunità”, 1998 – che, riprendendone alcuni passaggi sia della formazione che del ministero variamente espletato (spesso fissati nel diario) nonché raccogliendo numerose testimonianze, offre un ritratto ampio e profondo di una personalità ricca forse come poche nel pur largo e valoroso presbiterio diocesano di Cagliari, almeno della diocesi di quel tempo…
Don Dino (Aldo per l’anagrafe), ormai anziano, è un gentiluomo, signorile e affabile insieme, la premura all’altro fatta persona, un prete amabile e buono nel senso pieno, non retorico, della parola. Ha avuto la ventura, direi la fortuna, di crescere in una famiglia del nostro Campidano in tempi in cui le vocazioni religiose, e al sacerdozio specialmente, erano frequenti, e non per la conquista di uno status – come ben poteva essere all’interno di ambienti rurali e di fatica – ma, almeno in larga prevalenza, nella replica e nel rimodellamento personale di figure carismatiche – parroci e viceparroci – presenti nelle comunità locali, civili e parrocchiali.
In un censimento della metà degli anni ’50 – giusto quando egli fu ordinato dall’arcivescovo Paolo Botto (il 3 luglio 1955) – Samassi era nettamente in testa, in ex aequo con Quartu (dieci volte più grande però), nel concorso vocazionale: l’elenco comprendeva don Roberto Atzeni (classe 1900, ordinato nel 1926), don Clemente Liggi (1923, 1948), don Albino Mancosu (1927, 1951), don Martino Murgia (1923, 1952), don Beniamino Palmas (1871, 1899, cappellano ad Elmas nella Cappellania Boy), don Giovanni Serra (1914, 1939), don Gesuino Setzu (1911, 1937), don Celestino Fois (1884, 1908, in servizio a Cuglieri), e appunto don Aldo/Dino Pittau (1932, 1955). Preti tutti chiamati a svolgere il loro ministero in questo o quel centro del nostro Campidano, da Samatzai a Burcei, da Ortacesus a Dolianova, da Elmas a Pirri, a Cagliari stessa, fra Stampace e seminario e uffici del Capitolo metropolitano… Altri, diversi altri, avevano marcato il tempo ormai trascorso – si pensi a don Lorenzo Atzori, storico arciprete di San Pantaleo, già cattedrale di Dolia – oppure si sarebbero aggiunti nei terminali anni ’50 e nel decennio successivo, a cominciare dall’indimenticato mite don Nino Onnis (1932, 1957, morto nel 2015) e don Efisio Muscas (1942, 1967, a lungo cappellano dell’ospedale Binaghi), da don Tito Cabiddu (1926, 1952, già cappuccino) e don Ignazio Siddi (1960, 1989), per arrivare ai tre fratelli don Bruno Pittau (1936, 1961) e, appunto, don Antonio (Tonio, 1938, 1962) e Francesco (1940, 1964, passato dopo gli studi alla Gregoriana ad altro servizio ecclesiale), ad altri ancora che, per le ragioni più varie, hanno lasciato, dopo anni di proficuo lavoro, il ministero attivo. Senza poi dimenticare i religiosi, da padre Davide Manca missionario della Consolata al cappuccino padre Federico Furcas… Questa la sequenza che una pur rapida scorsa alla serie storica degli annuari “Caralis Nostra”, curati per lunghi anni dal compianto don Luigi Cherchi, consente di individuare nel clero locale del secolo passato.
Peraltro lo stesso don Dino accenna, nel suo libro, a questo fiorire vocazionale nel cuore del Campidano di Cagliari: «Quando nel 1949 il giovanetto Tonio Pittau entra in seminario, Samassi è una delle prime parrocchie della diocesi per vocazioni maschili e femminili: 7 sacerdoti, 10 seminaristi tutti arrivati al sacerdozio, 4 fratelli laici francescani, 21 suore in varie congregazioni». E più oltre, per dare almeno un’idea delle influenze sul sentire e progettare di bambini e adolescenti all’ombra del campanile parrocchiale: «L’Azione Cattolica…, i chierichetti particolarmente curati dal parroco don Mocco, le funzioni serali frequentate assiduamente dai ragazzi, le passeggiate “cun su Vicariu” a “sa ’ia ’e su campu santu” con le indimenticabili partite a pallone arbitrate dai seminaristi in vacanza, le proiezioni dei dopo cena di don Martino all’aperto [erano i filmini di don Bosco e di Cin Ciao], costituiscono un ambiente assai favorevole per la maturazione del primo segno di vocazione…».
I fratelli Pittau sono affascinati dall’esperienza di studio e di vita del grande – appunto don Dino – e ne seguono l’esempio. C’è trasmissione di sentimento e condivisione di obiettivi fra di loro. Lui, il grande dei quattro maschi di casa che avrebbero detto messa, aveva goduto delle lezioni e dell’esempio del vecchio don Antonio Bandino, parroco di Nostra Signora di Monserrato (che, dopo lunga malattia, e già sostituito da don Emanuele Mocco, sarebbe scomparso nel 1947).
Il paese allora, negli anni della sua infanzia, e poi in quelli dell’infanzia dei fratelli che sarebbero venuti, contava meno di quattromila abitanti. Nel febbraio 1933 l’arcivescovo Ernesto Maria Piovella aveva consacrato la parrocchia, dopo importanti lavori di restauro, cogliendo l’occasione per cresimare ben 500 ragazzetti fra i sei ed i quindici anni, come anche ricorda in un delizioso libretto autobiografico don Martino – Marciano, Marcellino – Murgia (“Dai campi all’altare”, 1992). Già forte del consenso popolare in municipio e in certe ali sociali il fascismo, l’ambiente religioso era rigoglioso di suo, all’indomani della crisi dei rapporti fra l’Azione cattolica e il regime. Attive, nell’asilo, le Piccole Suore degli Orfani (o Francescane di Seillon), attivi i corpi dell’Azione cattolica impediti però di porsi domande politiche: l’Unione Uomini, il Gruppo Donne, l’Associazione Giovanile Maschile San Gemiliano, l’Associazione Giovanile Femminile Santa Rosa da Viterbo, ma anche le Dame vincenziane. Officiate, tanto più in occasione delle feste patronali, secondo l’uso paesano, le chiese filiali di San Giuseppe sposo di Maria Vergine, di Santa Margherita vergine e martire, di San Gemiliano (o Geminiano) vescovo, veneratissimo in paese, molto più dopo l’alluvione rovinosa del 1898, e titolare di una bella chiesa romanica risalente al XII secolo. Storia lontana.
Esiste una bella monografia sulla storia samassese, a firma di Gaetano Gugliotta (“Samassi”, edizioni Vedute Sarde, 1985), e una parte non secondaria è dedicata anche alle vicende ecclesiali del posto (ancorché con i limiti temporali della metà del XIX secolo), ma non è mio interesse adesso indugiare su questo: mi importava invece segnalare l’isola felice, tutta interna alle cure e alle responsabilità della Chiesa locale, secondo la sensibilità del tempo ovviamente, nella lealtà verso il presule diocesano, Piovella prima, Botto poi.
Nella vita quotidiana sono gli anni che, in casa Pittau, associano l’innocenza dell’età dei piccoli alla tragedia della guerra, e in paese l’antico senso ospitale alle dinamiche nuove e convulse dello sfollamento dei cagliaritani, famiglie ed uffici (fra i molti, anche lo sportello dell’onorato Banco di Napoli)…
Luisetta Piras, samassese di vocazione samaritana
È inevitabile, per quel tanto che conosco della Sardegna, per studi o vissuto, che il pensiero raggiunga i Piras, o i Piras Pittau – tutte le famiglie di Samassi sono, in un modo o nell’altro imparentate –, che danno alla società locale il meglio, non soltanto in termini di cultura ma anche, e direi soprattutto, di solidarietà. Ripenso, volgendomi a quegli anni terribili della guerra, al giovanissimo avvocato Beniamino, allora militare ma proiettato già in un impegno civile e democratico, cofirmatario di un corposo contributo di idee sulla prossima autonomia regionale della Sardegna, collocandosi egli a mezza strada fra il federalismo di Cesare Pintus e il decentramento amministrativo di Corsi, insomma fra il sardoazionismo e il riformismo. E ripenso a quella che sarebbe stata sua moglie, Luisetta, personalità che nella sua tarda età sarebbe stata particolarmente importante nella mia vita per le mie attività nei circuiti della emarginazione giovanile legata ai disastri della droga, fra carcere e ospedale: autentica, bellissima samaritana. Ma samaritana già allora, nel 1943 e 1944, lei studentessa alla facoltà di Matematica e postina di tremila fra lettere e cartoline in partenza e in arrivo dei civili lontani o dei soldati impediti di un collegamento con le famiglie, ecc.
Ne raccontò lei stessa ai redattori dell’ “Almanacco di Cagliari” 1987 e di “Jesus” 1990. Ne ho scritto anch’io, in un libro vecchio ormai di anni, che mi servì molto per onorare memorie e attività comunitarie di Mondo X Sardegna. Dal molto recupero almeno qualche riga: «Tutti i giorni, eccetto la domenica, ascoltavo le trasmissioni dalle 18 alle 18,30 sulle onde corte 50,26 [della Radio Vaticana]: quattro lunghi mesi d’impegno fatto con amore e con commozione quando, nonostante la difficoltà della ricezione per la rapidità della lettura del testo, riuscivo a trascrivere anche 80 messaggi al giorno. I messaggi provenivano da tutte le parti del mondo: erano di civili residenti in Italia nelle zone occupate dai tedeschi, di militari “in forza” nei comandi indicati solo con la sigla P.M. (posta militare), di prigionieri di guerra internati nei vari campi di concentramento della Grecia, Algeria, America, Brasile. Dopo pochi giorni decine di messaggi erano già spediti a destinazione, scritti a mano da me personalmente e così redatti: “Gentile Signore, ho il piacere di comunicarle che il giorno… dalla Radio Vaticana (onde corte 50,26) ore 18 – 18,30 è stato trasmesso il seguente messaggio… Per la risposta si rivolga alla Croce Rossa. Distinti saluti”».
Sono ora i primi mesi del 1944. Contestualizzo, Tonio Pittau sta per iscriversi alla prima elementare. I bombardamenti sulla Sardegna, non soltanto su Cagliari, sono finiti ormai, ma la guerra sul continente no, quella non è ancora finita. A Samassi si vive in austerità, in povertà bisogna dire, come sempre e ancor più per l’emergenza perdurante. Manca anche la carta, in paese, ed è la carta che serve alla missione di Luisetta Piras, che si adatta a trascrivere i messaggi in un mezzo foglio di quaderno. Questo poi, piegato, vale anche come busta.
Luisetta samassese, virtuosa samaritana nel 1944 e sempre, negli anni in cui padre Salvatore Morittu fonderà le sue comunità, negli anni in cui anch’io sarò militante dell’impresa, fra ospedale e carcere. Né voleva sentirne, allora, di non spendersi più, lei anziana e già malata, per la causa, di sovvenzionare, con sue rinunce, le famiglie disastrate che io mi ero assunto nel mio carico. Abbiamo cooperato, lei ancora samaritana, samassese virtuosa: facemmo proprio cooperativa, anche per amore di Paolo, suo figlio, che potei assistere fin alla notte del suo doloroso exit nel reparto di un medico meraviglioso, Franco Oliverio.
Un’altra volta ancora il pensiero si volge là dove la famiglia di Raimondo Pittau e Angela Cabiddu – i genitori di don Tonio e don Dino e degli altri – conta amicizie di rispetto, in paese, si volge alla “cooperativa” solidale di volontariato, estemporaneo ma necessario, del 1944. Perché, per non rinunciare agli inoltri a quei tanti di cui mancava un indirizzo sufficiente, Luisetta ventunenne coinvolse fra Arcangelo Mazzotti, arcivescovo di Sassari, che fece “cooperativa” con lei – un’altra “cooperativa” – e le scrisse a sua volta: «Ricevo regolarmente i messaggi di Radio Vaticana intercettati da Lei e la ringrazio perché io non potrei compiere l’opera di carità alla quale Lei si è dedicata con tanto spirito di sacrificio. Purtroppo è assai difficile rintracciare i destinatari. Comunque ho dato disposizioni perché vengano pubblicati nel giornale “La Libertà” e così è facile che vengano conosciuti. Il male è che non si possono trasmettere notizie dall’isola, ma sto occupandomi anche di questo».
Don Tonio Pittau canonico parroco di Santa Cecilia, a Castello
Corrono gli anni ’40, poi gli anni ’50… Gli studi cui, uno dopo l’altro, sono chiamati portano i fratelli Pittau al Tridentino di via Università, nel capoluogo, o – per alcuni anni delle medie, anche don Tonio – a Dolianova, e poi al regionale di Cuglieri.
E quindi preti ordinati, ancora uno dopo l’altro. Svolgono le proprie attività nei settori loro assegnati: don Bruno, in particolare, prende incarichi di seguito a Nurri, a Selargius, a Siurgus Donigala, a Serramanna (qui sarà parroco per trent’anni, a Sant’Ignazio da Laconi); non gli manca neppure, com’è capitato al fratello maggiore, un ufficio in seminario: lui al diocesano fra il 1970 ed il 1971, don Dino al regionale (al tempo, 1966-1967, ancora per pochi anni, a Cuglieri).
Ripassa veloce, in questa mia memoria nella quale richiamo i talenti di questa famiglia eccezionale, di gran valore davvero – la storia straordinaria dei fratelli samassesi nel servizio alla Chiesa, nell’obbedienza all’autorità: servizio alle comunità, parrocchie o gruppi ed associazioni. E vado alla ferocia dell’ultimo tempo di don Tonio.
15 settembre 1986. Trent’anni a oggi, quando converso con don Dino e appunto in un foglio di carta le prime righe di questo articolo, l’arcivescovo Giovanni Canestri ottiene l’obbedienza di don Tonio circa il suo trasferimento da Sant’Avendrace alla cattedrale. Col senno di poi – e questo è il punto – si sarebbe detto essere un invio al martirio. Sia chiaro: invio/invito alla testimonianza, non prefigurando certo, non immaginando neppure alla lontana, il presule, un epilogo tragico, da cronaca nera.
La sera del 22 dicembre 1988, poco più di due anni dopo quel sofferto “sì”, don Tonio veniva assassinato e portato, con tragica mess’in scena, in un dirupo presso il rio Picocca, nella direttrice Cagliari-Muravera, in territorio di Burcei. Fu trovato disteso accanto alla sua vettura, che altri scaraventarono nel burrone, coperto da un gran telo e con un cuscino sotto la testa. Scomparsi gli occhiali, scomparsa la catenina, scomparse le chiavi di casa e della cattedrale. Livido un occhio e livida una mano chiusa a pugno. Porzioni di sostanza cerebrale furono allora rinvenute da un muraverese (che ne riferì ai familiari) e sepolte per pietà ad un lato della strada alta. Il cranio della vittima era spappolato, la nuca distrutta, svuotata, e non avrebbe lei, la vittima, potuto distendersi a terra e proteggersi dal freddo della notte, in attesa di soccorsi. In quella notte invece altri entrarono nella sua abitazione, rovistando. Forse quelli stessi che giorni addietro gli si erano presentati in cattedrale, prima della messa serale, per minacciarlo; forse gli stessi che, presentandosi in talare in simulazione dei due fratelli preti, chiesero al custode dell’auto, sottoposta a sequestro, di poterla visionare (credibilmente per manometterla, per alterarla con aggiunte o sottrazioni clandestine).
L’iter giudiziario di questo caso drammatico dura senza risultato da quasi tre decenni. A suo tempo la salma di don Tonio non fu sottoposta, contraddicendo la legge, ad autopsia e per tre volte la magistratura cagliaritana ha negato la esumazione delle povere ossa per avere la conferma di quanto gli agenti della scientifica confidarono in più circostanze ai congiunti: che di assassinio si era trattato, assassinio mascherato da una volgarissima commedia: quella dell’incidente d’auto. Anche perché non poteva darsi in alcun modo che un errore di guida portasse ad uscire nel breve stacco fra la sequenza delle protezioni laterali della strada: ci sarebbero volute cinque pazienti manovre tutte intenzionali…
Restava quell’occhio pesto, restava una mano piegata pesta anch’essa, restavano i graffi sul volto, restava una temperatura ancora semicalda del cadavere tale da far pensare, considerati i dati termici di fine dicembre, oltretutto notturni o di primissima mattina, alla commissione del delitto non lontana nel tempo d’orologio dall’ora del macabro rinvenimento e dunque dopo una intera serata e una notte che possiamo soltanto immaginare trascorsa come nei processi di Nostro Signore davanti al sinedrio, a Ponzio Pilato e alla folla inneggiante a Barabba, fino al percorso lento e sfiancante verso il Calvario.
La magistratura cagliaritana non ha saputo – non direi mai, per l’ossequio dovuto all’ordinamento repubblicano, voluto – chiarire la situazione di fatto, scoprire cause e fatti, mandanti e sicari, se queste erano le parti. Certamente non ha voluto – non ha voluto – rispettare il diritto della famiglia a conoscere quel tanto che poteva essere a lei comunicato: perché non fu fatta l’autopsia – perché non fu fatta l’autopsia?! –, perché quel capo che in un primo momento era stato mostrato con qualche benda, ore dopo era stato quasi integralmente fasciato, come a dare qualche solidità a ciò che era stato abbattuto con colpi bestiali. La magistratura è al servizio della giustizia all’interno delle regole alte, insuperabili, della costituzione repubblicana: deve rispettare l’umanità, la morale, deve – deve – rendere conto delle ragioni per cui non ha, d’iniziativa, proceduto alla rivelatrice esumazione della salma in questi lunghissimi quasi tre decenni. Ne deve rendere conto alla famiglia naturale e a quella elettiva, alla famiglia civica ed a quella ecclesiale.
Certa è un’altra circostanza. I vescovi di Cagliari, uno dopo l’altro, fino a don Miglio, non si sono interessati: nessuno ha chiesto conto alla magistratura del nulla cui essa è pervenuta con le sue indagini iniziate, sospese, riprese, nuovamente sospese, ancora riprese e i perché del no reiterato alla ispezione dei poveri resti. Sarà la Cassazione, il prossimo 12 dicembre, a onorare tanta memoria? Roma invece di Cagliari? Lo auspico, lo vorrei.
Ho voluto bene a don Ottorino Pietro Alberti, e con lui ho in più occasioni, fidando nel rapporto amichevole e anche confidenziale apertosi dopo tanti triboli, cercai di prendere l’argomento, che egli però fece cadere sempre. Inducendomi ad interpretare la cosa come rimozione in atto – per me incomprensibile e inaccettabile –, secondo consolidata prassi clericale, per tema dello scandalo (così come per tanti anni, e su vasti scenari, è avvenuto per la pratica sciagurata della pedofilia).
So per certo che al suo arrivo a Cagliari, nel settembre 2003, don Giuseppe Mani – cui pure ho voluto bene ma non ho mai stimato – fu informato di quella tragica vicenda lontana allora quindici anni. Gliene parlò lo stesso don Dino, allora canonico parroco di Santa Cecilia, terzo successore di suo fratello in quell’ufficio, così com’era avvenuto a Sant’Avendrace. «Non m’interessa, non saprei che farci, son cose avvenute prima che io arrivassi» fu press’a poco la risposta, certamente gentile nella forma, algida e assurda nella sostanza. Che si spiega nella mentalità dell’anziano presule, che infatti aveva messo in non cale anche in Concilio Plenario Sardo con l’argomento ch’esso era stato celebrato prima ch’egli arrivasse, per comandare e comandare, in Sardegna. Ignorando ogni pur elementare vincolo suggerito dal principio della continuità istituzionale, non dico dal bisogno di giustizia che pur non s’acquieta mai.
Così don Arrigo Miglio: a Cagliari ormai da quasi un lustro, non risulta – almeno non ce lo ha mai fatto sapere – abbia contattato la procura per chiedere conto delle indagini in rapsodica sospensione, lui come leader diocesano ma soprattutto come fratello elettivo della vittima, se mai egli conosca la categoria e la responsabilità morale di quella categoria che, essa sì, dovrebbe essere dogma vero per un vescovo.
L’ho detto. Nel suo diario personale, don Tonio Pittau riferiva del colloquio con l’arcivescovo Canestri il quale gli chiedeva, scongiurandolo in nome della Chiesa, il sacrificio di lasciare la dolce comunità di Sant’Avendrace, per affrontare e possibilmente risolvere lo sfascio anche morale della parrocchia di Santa Cecilia. Un invio al martirio, un rischio di martirio accettato con disciplina, quello di un prete santo. Per questo credo sarebbe fondata un petizione volta a riconoscere a lui la qualifica di martire del ministero. Come la meriterebbe, l’ha meritata, don Graziano Muntoni, altra figura luminosa della Chiesa sarda di questi ultimi decenni.
Gianfranco Murtas