«Ho pensato di uccidermi ma non ho trovato il coraggio. Sono consapevole di aver fatto un grosso errore e che per questo devo pagare».
Così scriveva Igor Diana lo scorso maggio dopo aver confessato di aver ucciso i genitori adottivi. Per questo stava scontando la pena nel carcere di Uta. Ed è lì, in cella, che si è suicidato impiccandosi. Aveva 28 anni.
Il coraggio, quel disperante e disperato coraggio, fratello Igor, l’hai trovato sei mesi dopo in una cella di carcere, diventata un secondo utero materno da cui – prematuramente – hai pensato e sperato di ri-nascere una volta conquistata la leggera liberazione di un carico che solo sorella morte poteva strapparti dalla mente e dal cuore.
La verità, fratello Igor, è che tutti noi, anche se il nostro codice penale non lo contempla, ti avevamo già condannato a morte.
I tuoi difensori ci avevano provato a evitarti il patibolo lo scorso giugno, chiedendo al Tribunale del Riesame “misure cautelari più adeguate alle tue condizioni di salute”.
Nel freddo linguaggio della legge avevano giustificato la richiesta certificando le tue “patologie incompatibili con la vita in carcere” e per questo sollecitando i domiciliari in una Rsa nell’hinterland di Cagliari.
Una decisione che non è mai stata presa.
Non sappiamo se ti avrebbe salvato la vita.
Facci solo sperare che avresti potuto sperimentare come, anche per te, il Giubileo della Misericordia forse non sarebbe passato invano.
Che avresti potuto incontrare uno, due, cento samaritani che avrebbero curato le tue ferite, avrebbero pagato per te la locanda della speranza, reso meno tremende le lunghissime notti del dolore e del rimorso.
Ti abbiamo invece punito con la più atroce e devastante delle pene capitali: la solitudine, l’abbandono, l’indifferenza e l’oblio.
Dove tu sei sprofondato senza scampo.
Ci consolino, oltre le parole della fede, le laiche rime del poeta De André, dolce epitaffio che lasciamo sulla tua tomba:
…quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte, ai suicidi dirà baciandoli alla fronte:
«Venite in Paradiso, là dove vado anch’io» perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio.
Paolo Matta